“Ballate per Uomini e Bestie”, titolo dal valore quasi antropologico, nell’evidenziare quella sottile linea che l’evoluzione umana mantiene da sempre nascosta, l’anello mancante che disgiunge, nella nostra “catena”, gli evoluzionisti dai creazionisti … ma l’essere umano dopotutto non è altro che una bestia che il caso o qualche divinità capricciosa (trascendente o aliena che sia) ha de-voluto a una condizione di sapiens ignorante.
E storie di uomini-bestie racconta Vinicio Capossela nel suo ultimo disco.
Un lavoro discografico che, nel bene e nel male, non fa un “passo avanti, due passi indietro” (per citare lo stesso Capossela) ma solo un passo “in più” nella carriera artistica del compositore.
Se si traccia un’ipotetica semiretta e si pone come suo punto iniziale il Capossela un po’ Conte e un po’ (e poi sempre più) Waits, non si può tacere una produzione dalla capacità creativa sempre più in espansione, sia sotto la ricerca musicale che testuale.
Come un emigrante del sud Italia, Capossela è “partito per un posto d’oltre mare” che si è mostrato “lontano solo prima di arrivare”, passando per porti e caravanserragli che l’hanno “sorpreso” ad attingere, nel tempo, alla più variegata letteratura sacra e profana, alla mitologia e al folklore.
Dall’antiteatro dell’Ubu Roi dell’uncino da finanza e del palottino di “Canzoni a manovella”, al Billy Budd di Melvinianna memoria e all’omerico canto di “Marinai, profeti e balene” …, come un novello Ulisse ha attraversato mari e terre di ellenica rebetika memoria per approdare, nuovamente, alla propria terra natia e congedarsi dal pubblico (prima di “Ballate per Uomini e Bestie”) con un doppio “Canzoni della Cupa”, Giano bifronte fatto d’ombre e polvere, crocicchio al quale sostituire Ecate con il più “familiare” Pumminale.
Vedovo, per note e per visioni, dalle sue “giornate senza pretese” e dai sui “veglioni”, Capossela si era addentrato tra le creature dell’immaginario tradizionale, in una discesa non più da girone antico e dannato “tra gli inferi dei bar” ma da dannati degli inferi di Rubens. Un’anabasi che, dagli incubi pregni di superstizione di un sud Italia di tradizione e magia, come tratte da un saggio di Ernesto De Martino, ha dato a uomini e bestie la consapevolezza della loro natura di animali abitanti della superficie sino a conferir loro la forma vinilica in musica di “Ballate per Uomini e Bestie”, registrato nell’arco di due anni tra Milano, Montecanto (Irpinia) e Sofia (Bulgaria) da Taketo Gohara e Niccolò Fornabaio, con la collaborazione di Raffaele Tiseo, Stefano Nanni, Massimo Zamboni, Teho Teardo, Marc Ribot, Daniele Sepe, Jim White, Georgos Xylouris e l’Orchestra Nazionale della Radio Bulgara.
Il disco, pubblicato ufficialmente venerdì 17 maggio, è stato anticipato dall’uscita del singolo e del video “Il Povero Cristo”, che a dirla tutta ha sensibilmente spiazzato (non positivamente) lo scrivente.
Prima di addentrarci in un’analisi e di fare commenti, ho l’obbligo morale di effettuare una doverosa precisazione: seguo da sempre Capossela e l’ho ritengo (forse) il miglior musicista nostrano della sua generazione; come già in precedenza detto, un artista a tutto tonto in grado di sapersi rinnovare e mettersi in discussione, sia sotto il profilo musicale che (e soprattutto) nelle liriche.
Ebbene, “Il Povero Cristo” è apparso all’ascolto non in linea con la penna di Capossela, poiché fortemente intriso di eccessiva e inaspettata retorica. Se si può, poi, essere indulgenti per la semplificazione musicale del brano (spesso Capossela ci aveva abituato a una linearità funzionale delle sue composizioni), diventa difficile essere accondiscendenti quanto si analizza il testo che (forse) cavalca l’onda di un disagio sociale contemporaneo la cui attualità è stata troppo esplicitamente resa, in modo sì diretto ma al contempo “banale”.
Al di sotto delle aspettative anche il video, se si considera la firma di Daniele Ciprì … così lontano dalle meraviglie di “Totò che visse due volte” e dello “Lo zio di Brooklyn” (realizzati in coppia con Franco Maresco), e anch’esso “rhetoric politically correct”.
Discorso, diverso, invece se si considera il disco nella sua interezza.
Nel susseguirsi dei brani Capossela, infatti, si riappropria dell’identità creativa da egli stesso messa in croce con “Il Povero Cristo”, dando così alle stampe un disco “medio” ma comunque conforme al suo attuale standard compositivo ad eccezione di qualche perla … tra cui:
Uro, omaggio alla grotta di Lescaux, all’Antropo e al suo primo vagito d’arte figurativa … complici anche le tessiture d’archi di Teho Teardo;
La totalizzante Peste, morsa dalla contemporaneità liquida e infettata da un yersinia pestis moderno di tecnologica elettronica … surreale denuncia social(e), mediatica, politica … in cui la musica sublima in geniali refrain inaspettati per congedarsi in fotografato e postato requiem conclusivo. Sarebbe stato questo, a parere di chi scrive, il giusto singolo …
Per il resto tra Danze Macabre; originali abusati testamenti (Il testamento del Porco); omaggi a Oscar Wilde (Ballata del Carcere di Reading) – “Ogni uomo uccide ciò che ama”, non posso non ricordare il capolavoro nel Querelle de Brest di R.W. Fassbinder “Each man kills the thing he loves” nella voce di Jeanne Moreau -; moderne e Nuove Tentazioni di Sant’Antonio (siamo troppo distanti però dalle visioni Hieronymus Bosch, Salvador Dalí e da Gustave Flaubert); Perfetta Letizia di Francescana memoria; favole dei Grimm, con i loro asini, cani, gatti e galli (i quattro famosi Musicanti di Brema); brani scappati dalla Cupa (la un po’ Hobbesiana – Le Loup Garou); tristi storie vere (La Giraffa di Imola) da circo e da crudeltà umana verso gli animali e di stato di apolide senza stato (Di Città in Città … e porta l’Orso); lente riflessioni esistenziali (La Lumaca) … Capossela, “nel niente sotto il sole”, ha in sostanza consegnato un niente di nuovo sotto il sole che brucia i solchi del suo ultimo vinile …
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autore: Marco Sica