di Asghar Farhadi. Con Sareh Bayat, Sarina Farhadi, Peyman Moadi
Se dici “film iraniano” pensi a grandi scenari di polvere e brughiere, chador cascanti, bronzee luci persiane, desertificante lentezza d’essai (e magari anche due polmoni così). Invece “La separazione”, scritto e diretto da Asghar Farhadi potrebbe essere stato girato in qualunque zona del primo mondo, anche in Europa. Interni piccolo borghesi, personaggi metropolitani in frizione, una badante del lumpenproletariat di Teheran che cerca lavoro. Un dramma possibile che si concatena rapido e sapido, con l’escalation eccitante del fatto di cronaca. Storia condominiale “universale” che però si fa ardentemente iraniana proprio alla fine, diventando unica e specifica di quel luogo.
La differenza tra stato laico e teocratico non è nel capo velato, naturalmente, ma in qualcosa di più profondo: non si può spergiurare sul Corano, recita la deuteragonista che sta per far condannare il suo datore di lavoro, presunto infanticida. La verità è un atto di omissione. Ma questa è solo una delle tante letture che si porta dietro un film che è il contrario della noia. Se iniziamo ad interagire coi personaggi sullo schermo come casalinghe con la tv in cucina – “Attenta!”, “Ma guarda ‘sto stronzo!”, “E mo’ come si mette?” -, vuol dire che abbiamo detto addio alle cipster per tuffarci anema e core dentro la pellicola di Farhadi. Che racconta e lancia sassi sull’avaria della coppia contemporanea, persino nella società mediorientale dominata dal “regime” del matrimonio; sul rapporto con i figli: dolce quanto ingannevole e irresponsabile (l’ultimissima scena è da brividi); sulla pudicizia come autoregolamentazione e autocastrazione. Sfogliamo un romanzo popolare che invischia un pugno di soggetti, facce d’angelo più o meno bugiarde e inadeguate, nel vortice del processo penale, ovvero la summa dei rapporti mai facili tra esseri urbanizzati.
Tutto questo messo in scena da attori calibrati, che non vanno mai oltre le righe anche quanto strepitano e si prendono a schiaffi da soli. Credibili. Un film italiano così – piano e lineare eppure compòsito – non lo vedremo mai, anche se di storie condominiali ribollono le popolose palazzine di Napoli come di Milano o Pescara. Non è colpa dei filmaker ma dei produttori (non tutti), e di quelli che per compiacerli offrono idee più facilmente spendibili (un regista pieno di idee come Piva s’è autofinanziato pur di girare il suo “Henry”).
Noialtri quando ci avviciniamo alle trame semplici veniamo ingoiati dal grande quesito: dove inserirci adesso la storia d’amore? In quale punto del soggetto dovranno baciarsi o cornificarsi? C’è mezzo cascato anche il venerabile maestro Montaldo ne “L’industriale”. La sindrome dei tascabili Harmony ci frega, e gli altri vanno a ritirare gli Oscar. Come questo splendido “Una separazione”, miglior film straniero per l’Academy, e pure per noi.
Autore: Alessandro Chetta