La letteratura che ruota intorno al rock segue rigorosamente uno schema definito fatto, il più delle volte, di noiose informazioni musicali e di luoghi comuni sulla vita delle rockstar. Naturalmente ci sono delle eccezioni, una di queste è rappresentata da Le vere avventure dei Rolling Stones, testo originariamente pubblicato nel 1984 da Stanley Booth (titolo originale: Dance With The Devil – The Rolling Stones and Their Times) ed oggi anche da Feltrinelli per i cinquant’anni della band.
Certamente i Rolling Stones sono un miracolo di longevità ma rappresentano anche la quintessenza di una musica che hanno contribuito a rendere immortale, partendo dalle sue radici blues. Una simbiosi completa, che non si limita all’aspetto musicale, nessuno meglio di loro, infatti, ne ha incarnato meglio, nell’immaginario collettivo, la frenesia e gli eccessi. La loro storia è stata naturalmente oggetto di un numero ormai indefinito di volumi, tuttavia il libro di Booth non è la fredda ricapitolazione di eventi accorsi ad un gruppo di rockstar. Le vere avventure dei Rolling Stones è molto di più. E’ la struggente cronaca di un tempo che non c’è più: il racconto di due anni cruciali, il 1968 e il 1969, che si concludono con la morte del chitarrista Brian Jones e con il tragico concerto di Altamont Speedway in California. Come dire la cronaca della fine di una generazione, quella della pace e dell’amore con il suo corollario di idealismo e utopia.
Stanley Booth, negli anni ’60, era un giornalista della rivista Rolling Stone e, per primo, ebbe l’idea di scrivere la biografia di Jagger & soci. Per questo nel 1968 entrò in contatto con loro, divenendone un membro della cerchia ristretta fino a condividere tutte le giornate della tournée americana del ’69.
Innanzitutto c’è la morte di Brian Jones. L’ideatore degli Stones, il musicista ed arrangiatore di grande talento e il più rigoroso, nel coltivare la passione per il blues. Jones era l’anima musicale dei primi anni, ma anche il sex symbol. Più dandy di Mick Jagger e più decadente di Keith Richards. Amico di Andy Warhol e Bob Dylan, Tom Wolfe e Jimi Hendrix. Tuttavia, a dispetto delle apparenze, Jones era anche un uomo fragile, terribilmente a disagio nel suo ruolo. Tra il ’65 e il ’68 ebbe innumerevoli e gravi crolli che lo costrinsero in ospedale, alcune volte anche in prigione. Nel suo stile di vita l’abuso di droghe e alcol rappresentavano la norma e, a 27 anni, aveva già quattro figli, tutti da donne diverse. Ma al di là dell’eccessivo profilo pubblico, il suo punto debole era il rapporto complicato con i suoi compagni. Bill Wyman nella sua biografia (Stone Alone) ha scritto come di lui come: <<uno introverso, timido, sensibile, profondo… l’altro era un pavone agghindato, gregario, artistico, sempre con il disperato bisogno di sicurezze dai suoi colleghi… spingeva ogni sua amicizia al limite e oltre>>. Il suo rapporto con la band si era andato trasformando in una sorte di amore-odio. Non si era mai realmente ripreso dalla fuga della sua compagna Anita Pallenberg con Richards mentre lui era in ospedale e dal fatto, inoltre, che la nuova direzione musicale, incentrata sul songwriting della coppia Jagger/Richards, lo aveva relegato inesorabilmente in seconda fila. Jones in quel periodo era sempre più paranoico e il suo contributo in sala di registrazione era ormai pressoché nullo e la sua stessa presenza era, sempre più, percepita dagli altri come una minaccia per il futuro della band. Con l’uscita del loro prossimo album (Let it Bleed), gli Stones avevano in messo programma anche un tour americano, ma si sapeva che, per via dei suoi guai legati alla droga, al fondatore della band non sarebbe stato concesso il permesso di entrata negli Stati Uniti. Per questo l’8 giugno 1968 Jagger & soci decisero che la cosa migliore da fare fosse quella di trovare un nuovo chitarrista, comunicandogli che loro da quel momento sarebbe andato avanti senza il suo contributo. A Jones furono versate 100.000 sterline come buonuscita con queste comprò una villa di Cotchford Farm, la stessa nella quale venne ritrovato senza vita la notte del 3 luglio 1969. Annegato in piscina forse per un malore dovuto a ingestione di alcool e droghe.
In sua memoria, due giorni dopo, gli Stones tennero un concerto gratuito a Hyde Park. In realtà, il concertodoveva essere un grande evento pubblicitario per presentare al pubblico il sostituto di Jones, Mick Taylor proveniente dai Bluesbreakers di John Mayall. La ragione dell’evento venne però subito cambiata anche in ragione delle critiche ricevute per il modo in cui avevano trattato quello che era stato il fondatore degli Stones. Nella serata del 4 luglio 1969 centinaia di ragazzi arrivarono ad Hyde Park. La polizia aveva eccezionalmente consentito l’apertura notturna per permettere a tutti, in attesa del concerto, di accamparsi nei pressi del palco. Il programma prevedeva anche band e musicisti come Screw, Alexis Korner’s New Church, Battered Ornaments, Family, King Crimson e Roy Harper e la mattinata del 5 luglio, sotto gli alberi e sui prati di Hyde Park, c’erano oltre 250.000 persone. Un enorme ritratto di Jones era stato appeso sul fondo del palco, ma durante l’esibizione dei King Crimson cade sulla testa del cantante Greg Lake. Quel giorno c’era una strana atmosfera, per chiunque amasse la musica sembrava quasi un obbligo esserci, tuttavia aleggiava anche un senso di disincantato, quasi la consapevolezza che niente sarebbe stato più lo stesso. Prima che il concerto avesse inizio, Jagger lesse degli stralci tratti da Adonais, una poesia che Shelley aveva dedicato all’amico Keats, mentre migliaia di farfalle bianche dovevano essere liberate nell’aria. Ma quasi come una metafora, quasi come il presagio le farfalle invece di volare ricaddero, morte per il gran caldo, sul palco e sulle prime file del pubblico come una pioggia di petali. Il resto del concerto fu grandioso, una delle esibizioni più emozionanti della storia del rock. Gli Stones aprirono il loro show con I’m Yours and I’m Hers di Johnny Winter, uno dei brani preferiti di Jones.
L’incertezza, l’inquietudine, l’insoddisfazione ed un sentimento incombente di morte. si agitavano come una massa scura di nubi sulla testa di Jagger & soci in partenza per quello che doveva rappresentare il tour della loro consacrazione, l’apice della loro notorietà.
Il tour americano, viene vissuto in prima persona da Stanley Booth. Gli Stones che, a cavallo del 1969, attraversavano l’America erano quasi una corte rinascimentale con il loro codazzo di cortigiani, portaborse, guardie del corpo e groupies, ma il paese era un invece sul filo di rasoio di una guerra civile latente con tumulti e violenze che si scatenavano in ogni città toccata dal tour. Quei mesi finirono per trasformarsi quasi un incubo lancinante, all’interno del quale Booth divise con loro ogni singolo attimo: le interminabili attese nei terminal degli aeroporti e le stanze anonime degli alberghi, le notti insonni passate ad ascoltare blues, a prendere droghe e a fare sesso. Nelle pagine di Booth, quasi inevitabilmente, gli Stones sono interpretati come una delle metafore possibili della fine degli anni ’60 con le sue contraddizioni, la contestazione, quel senso di libertà nonostante il potere, la polizia, il Vietnam. Ma l’illusione era destinata a spezzarsi inevitabilmente. Il suo racconto emozionante culmina con quell’ultimo concerto ad Altamont Speedway, nella notte del 6 dicembre 1969.
Fu una miscela di idealismo, arroganza e ingenuità che portò alla organizzazione, quattro mesi dopo Woodstock, di un festival gratuito sulla costa ovest degli Stati Uniti che avrebbe dovuto coinvolgere anche nomi come Grateful Dead Jefferson Airplane, Crosby, Stills, Nash & Young, Santana, i Flying Burrito Brothers. Era il modo di Jagger & soci di rispondere alle critiche arrivategli dalla stampa per dell’elevato costo dei biglietti. Inizialmente il concerto avrebbe dovuto tenersi al Golden Gate Park, ma l’amministrazione di San Francisco non volle rilasciare le autorizzazione necessarie, e si dovette ripiegare in fretta su di un’altra località. Soltanto sessanta ore prima dell’evento individuato l’autodromo di Altamont. Il risultato fu uno dei concerti peggio organizzati della storia.
La speranza di poter assistere a quella che, da più parti, si annunciava già come la “Woodstock dell’ovest” portò lì circa 300mila persone. La tensione era palpabile, ma nessuno poteva immaginare gli avvenimenti successivi. La situazione degenerò essenzialmente per due fattori la presenza degli Hell’s Angels cui era stato incautamente affidato il servizio d’ordine e la modalità con cui era stato montato il palco. Quest’ultimo era troppo basso e non permetteva al pubblico più lontano di vedere decentemente, la gente non rispettando i ripetuti inviti a stare indietro continuò a premere violentemente per potersi avvicinare, in questo modo crebbe il nervosismo degli Angels, incapaci di contenere la folla senza utilizzare una violenza eccessiva.
Il risultato fu lo scatenarsi di risse continue che spesso finirono persino per colpire gli stessi musicisti. Il concerto iniziò alle ore 13 con l’ingresso sul palco dei Santana, ma la band interruppe lo show protestando per le continue violenze sugli spettatori. Anche Marty Balin dei Jefferson Airplane venne colpito da uno degli Angels perché aveva osato lamentarsi della loro brutalità. Il set successivo dei Flying Burrito Brothers sembrò procedere senza ulteriori incidenti, ma quando sul palco salirono Crosby, Stills, Nash & Young i disordini scoppiarono nuovamente tra la folla. Gli Stones iniziano l’esibizione prima del previsto al posto dei Grateful Dead che presero la decisione di non esibirsi. Quella sera morirono quattro persone, anche se Altamont rimarrà sempre associato alla morte di Meredith Hunter, un ragazzo afroamericano accoltellato a morte da Alan Passaro, un membro degli Angels a pochi metri dal palco durante l’esibizione degli Stones. La ricostruzione dei fatti, durante il processo, stabilì che Hunter, sotto effetto di anfetamine, aveva estratto una pistola in mezzo al pubblico per venir poi immediatamente respinto dal palco e mortalmente ferito. Fu per questo che a Passaro venne riconosciuta la legittima difesa e fu scagionato dall’accusa di omicidio volontario. Le pagine di Booth su quel tragico giorno sono letterariamente un capolavoro, quasi una contemporanea versione l’inferno di Hieronymus Bosch. A leggerle si percepisce tutta la gravità di un momento che segnò una frattura sia culturale che personale. Per Booth Altamont rappresentò il punto di svolta. Se Woodstock era stata l’apice del periodo della controcultura giovanile, Altamont ne segnò definitivamente la fine, aprendo ineludibili interrogativi sul valore della musica come strumento politico e come principale fattore aggregativo di una generazione, oltreché sul significato stesso di una stagione turbolenta e irripetibile che, se senza dubbio, aveva contribuito ha cambiare le attitudini degli individui, non era riuscita a fare altrettanto rispetto all’ordine delle cose. Come ha scritto Simon Frith nella sua Sociology of Rock: << Quali che fossero le sue radicali potenzialità negli anni Sessanta, nei Settanta il rock è diventato una cultura di prevedibili gusti di mercato e superstar indulgenti, di untuose trasmissioni radiofoniche e suoni standardizzati: nient’altro che la solita industria musicale>>. Per cambiare le cose, come sappiamo, occorse quasi un decennio.
Quanto agli Stones, se, fino ad allora, nella loro musica era stato possibile avvertire l’urgenza vitale, la rivendicazione di libertà, l’assoluta affermazione si sé stessi attraverso la negazione di un qualunque schema, di lì in poi fu molto più semplice adeguarsi all’esistente tra i soliti eccessi e album mediocri, con la sola eccezione di Exile on main street: <<gli Stones riconoscono la loro complicità in un mondo in cui il male esiste. Soprattutto possono essere qualunque cosa ma non utopisti. Non riuscirono mai a apparire abbastanza convincenti come hippie perché la mentalità hippie non faceva per loro. Il gusto di Jagger per la comunanza estatica veniva mitigato da quella coscienza dei limiti che ha sempre assicurato agli Stones la loro acutezza formale. Un artista di successo può riassumere in sé il suo pubblico, ma si tratta di un processo di rarefazione: non implica il conformarsi ad una media, anche se parliamo della bohéme dell’epoca. Sicché, mentre è vero che le pecche degli Stones e della controcultura mostrano una certa congruenza, alla fine Mick non è congruente con alcunché si lascia sempre una scappatoia>> (Robert Christgau).
Vi fu un prezzo da pagare anche per Stanley Booth che da quel 1969 uscì profondamente traumatizzato, tanto che gli ci vollero anni di lotte per venir a capo dei suoi demoni personali. Nel 1971 lo scrittore venne arrestato per possesso di stupefacenti, venendo condannato ad un anno di libertà vigilata e al pagamento di una multa. Poi seguirono la depressione, il fallimento del suo matrimonio, oltre a numerosi altri problemi di salute. Solo dopo quindici anni riuscì a concludere quello che è, unanimemente, considerata uno delle più graffianti affreschi sugli anni Sessanta: <<Per raccontare quella storia dovetti diventare una persona diversa, prendere le distanze dal narratore che ero. Fu necessario per il dolore, la delusione, la mortificazione, il rimpianto, il rimorso. Tutti, Stones, fan, scrocconi, parassiti, osservatori, traboccavamo ottimismo in quell’autunno del 1969, un ottimismo che gli anni a venire avrebbero dimostrato totalmente ingiustificato. Tanto nella vita privata quanto in quella pubblica, fummo delusi da noi stessi e da gli altri. Immagino che sia un’esperienza comune a ogni generazione, ma noi eravamo convinti di essere diversi, di essere in qualche modo scelti, eletti, destinati ad ottenere successo, amore e felicità. Sbagliavamo>>.
autore: Alfredo Amodeo