Basta mezz’ora, ad Owen Ashworth, per accompagnarci in giro su e giù per i suoi universi sonori. Tanto che forse, piuttosto che di “universi”, si potrebbe parlare di appartamenti. O forse neanche, diciamo che si tratta di un monolocale, ecco. Di quelli che in pochissimo spazio è stipato di tutto di più. Owen ci accoglie – occhi bassi, sguardo un po’ triste – con una ballad meditabonda e malinconica, per pianoforte, archi e basi elettroniche approssimative (“New year’s kiss”, che fa molto primi Arab Strap), che taglia bruscamente per mostrarci il suo lato più ammiccante, sfoggiando dolcezze electro-pop (“Young Shields”, il primo singolo), bizzarri esperimenti di contaminazione tra elettronica pulsante e steel guitar dal forte sapore country (“Nashville Parthenon”), e persino stranianti quanto irresistibili illuminazioni dance (“Scattered Pearls”, dove alla voce è protagonista Jenn Herbinson, graditissima ospite). E’ il suo lato più curato, “pulito” e accattivante.
Poi Owen ci mostra anche quelle cose che forse fino all’ultimo era indeciso se tenere o meno in cassetto: spiragli deliziosamente lo-fi (“Holly Hobby (Version)” e “Love connection”, dove si ri-ascolta la voce dell’amica Jenn), che forse, in fondo, altro non sono che lo specchio più vero e sincero della sua personalità e sensibilità artistica.
C’è ancora spazio per mettere in mostra riflessioni e ricordi, imbrigliati in forme pop-rock di un classicismo quasi impacciato (“Cold white christmas”, “Bobby Malone Moves Home”), e per giocare a fare il crooner consumato da amori tormentati, alcool e miliardi di sigarette (“Don’t they have payphones wherever you were last night”).
Trenta minuti passati assieme al barbuto Owen e ti sembra di conoscerlo da una vita. Nel suo monolocale ci si sente a proprio agio, come in quello di un buon amico di vecchia data.
Autore: Daniele Lama