I ‘tre luridi’ australiani son tornati, ma c’era realmente bisogno di questo nuovo album?
Dal punto di vista dei nostri ascolti odierni, nell’economia del nostro tempo musicale, forse no; in merito alla curiosità sul percorso stilistico della band, decisamente no. In effetti c’è molto di più.
Era il 2000 quando uscì Whatever You Love, You Are ed il violino di “Some Summers They Drop Like Flies” riuscì ad aprire un varco silenzioso nel rumore del post-rock che allora tanto ci faceva digrignare i denti.
Perché con i Dirty Three è sempre stato un po’ così: si tirano fuori i loro cd ogni paio d’anni e quei pochi ascolti sono sufficienti ad entrarti dentro in modo subliminale e gli effetti arrivano dopo, nel tempo, inaspettatamente, come una seduta di psicoanalisi, come l’omeopatia o come una preghiera. Naturalmente occorre essere predisposti e ricettivi, altrimenti non funziona.
E anche al di fuori dei dischi siglati Dirty Three, non è che i tre ‘aussie’ abbiano fatto sentire troppo la loro mancanza in questi anni, soprattutto Warren Ellis nei Bad Seeds e nei Grinderman del connazionale Nick Cave e nelle colonne sonore dei due western cult ‘The Proposition’ e ‘The Assassination of Jesse James by the Coward Robert Ford’ oltre a quella dell’angosciante ‘The Road’.
Furnace Skies che apre l’album è un brano mesmerico nel suo fangoso incipit, quasi kraut nell’ambivalenza della coppia violino-chitarra, con Warren Ellis che cerca di riportare ad una dimensione sacrale le reliquie che le corde di Mick Turner abbandonano lungo la strada come oggetti inutili, disconnessi. L’entrata dell’organo verso la metà del brano lo trasforma in un’elegia canterburyana ed ecco che la sacralità è raggiunta.
Uno dei brani strumentali più interessanti ascoltati negli ultimi tempi, straordinario nella sua visionarietà anche perché realizzato con così pochi elementi apparentemente distanti tra di loro.
Che bello che sian tornati i Dirty Three. Ci mancava quel drumming così torrenziale ed unico di Jim White. Non è un caso che lo vogliano a suonare con loro P.J Harvey, Cat Power e Will Oldham. Non è rock, non è jazz, non picchia duro ma non è neanche così delicato e fa genere a sé nella storia della batteria; in Sometimes I Forget You’Ve Gone, co-protagonista insieme al pianoforte, è una cascata di parole – sì, parole – perché queste pelli sembrano parlare e commuovono quanto i tasti di avorio, se non di più. Moon On The Land sembra cominciare come un brano dei fuoriclasse post-rockers Shipping News, ma la sensazione dura pochi attimi poiché si rientra subito in quel particolare stato di calma emotiva tipico del ‘Dirty Three sound’, in quel paesaggismo mai manierista perché le immagini evocate sono quelle viste da un treno in corsa nei deserti d’Australia, troppo veloci quindi per imprimersi sulla rètina ma sempre piene di quella polvere rossa che tutto copre.
Scrivere ed eseguire musica per dei westerns contemporanei immaginiamo essere un atto naturale per Ellis, considerando che queste musiche sono senza tempo ed è impossibile collocarle al di fuori di un contesto ancestrale ed archetipico che nel western non stereotipato ritrova la sua natura selvatica. I Dirty Three sono selvatici come la loro musica. In That Was Was risuonano sempre lo stesso brano con marcato accento rock, ma non ci rendiamo conto che qui il rock è solo una veste fittizia perché ‘i tre sporchi’ ci ipnotizzano da bravi sciamani quali sono.
In Ashen Snow, dolcissima intro di piano, onde evitare che il violino ovattato che da sempre si rifiuta di essere protagonista scintillante della produzione Dirty Three per una volta rischi di diventarlo, si decide di troncare nel punto di massima albedo.
Questo disco, insomma, ha qualcosa in più rispetto agli ultimi albums dei Dirty Three: manifesta il loro piacere nell’essersi ritrovati dopo tanti impegni individuali, la grazia e la magia che si creano quando questi tre outsiders cominciano a suonare insieme, beatamente consapevoli dei rischi che si accollano, rischi che la musica dei Dirty Three inevitabilmente e per fortuna da sempre comporta. ‘Laudati’ siano.
Autore: A.Giulio Magliulo