Quando un gruppo di musicisti collabora con Hugo Race mutua sempre una denominazione molto suggestiva, evocativa e programmatica della musica che produrrà.
E’ successo con ‘True Spirit’, succede con ‘Fatalists’.
Se poi si indaga sulla genesi di un lavoro, se si seguono gli ‘attori sulla scena’ come succedeva nei primi films di Wim Wenders, un pretesto qualsiasi, magari funzionale alla narrazione, dà vita ai personaggi e permette il racconto di una storia.
La citazione al famoso regista tedesco potrebbe anche avere – per i più attenti – un riferimento circolare nel rapporto Wenders/Cave, ma essa è assolutamente casuale e si può anche chiudere definitivamente con le memorie australiane dei Bad Seeds che – per quanto riguarda Hugo Race – da molto tempo ormai non hanno più bisogno di esser disseppellite ogni qual volta si citi il suo nome.
Poi le invenzioni cinematografiche non offrono più opportunità rispetto a quelle regalate dalla vita vera.
Ecco come una polmonite possa influire sulla realizzazione di un disco registrato in Italia, paese ormai d’elezione per l’australiano (ci fa sorridere il pensiero che c’è ancora qualcuno che voglia qualcosa da ‘qui’) e rete di relazioni musicali così fitta da far venire il capogiro per la quantità e qualità dei nomi coinvolti e di respiro internazionale.
Alla fine di un tour di un mese con i True Spirits Mr.Race incontra i suoi amici in una vecchia villa nelle campagne emiliane. Ha un po’ di canzoni pronte da registrare, alcune parlano di morte. Si becca una polmonite e per tutta la durata delle registrazioni ha la febbre e situato in una stanzetta accanto allo studio sente la band registrare le sue canzoni alle quali lui non può partecipare.
La band è formata dal chitarrista Antonio Gramentieri e dal percussionista Diego Sapignoli dei Sacri Cuori, dalla violinista dei Calexico Vicky Brown, dall’Arizona e dal bassista olandese Erik Van Loo dei Willard Grant Conspiracy, nomi molto indicativi di cosa si può trovare in queste tracce dal sapore necessariamente ‘alterato’ vista la mancanza del protagonista.
Ma le cose a volte semplicemente accadono: così è stato ‘vissuto’ il risultato di queste sessions.
‘Risultato’ che poi è stato mixato nel Norfolk inglese ai Mills Studio, costantemente battuti dalle intemperie e da cui si intravede uno spicchio di oceano metallico che garantisce una continuità al senso di desolazione, di impotenza dell’uomo rispetto alla natura, con la location precedente.
Ecco come può nascere un bellissimo disco ed ecco come Hugo Race si allontana dalla fumosità enigmatica di un Tahoist Priest e dalle atmosfere genuinamente rock delle ultime apparizioni on stage e si consegna tra le braccia della classicità senza tempo, quella dei cantautori americani in cui interrogativi, confessioni e confidenze incontrano gli spazi sconfinati e dove perfino una Where You Did Sleep Last Night, il classico fifties di Leadbelly può rivivere dopo esser stata ‘posseduta’ dai Nirvana con un titolo meno coreografico, In The Pines.
Neanche la critica più patinata stavolta poteva sbagliarsi con i termini di paragone: quello più ovvio che poteva fare è quello con Mark Lanegan, ma mentre l’americano convive sempre con una certa tensione terrena, Race è quasi onirico, metafisico nei confronti di una realtà e di una narrazione poetica fatta di intangibile materia.
Se nell’imperturbabile e serena ballad Zeroes, nella tensione rock inesplosa di Slow Fry o nella promessa di Coming Over riesce difficile trovare altri rimandi perché è troppo forte la somiglianza di tono della voce con quella del rosso cantante degli Screaming Trees, nell’iniziale Call Her Name certe dinamiche chiaroscurali che prendono forma suggeriscono i nomi di altri nobili fantasmi: c’è un arpeggio in maggiore sospeso a mezz’aria, c’è un cambio di tonalità che getta il seme dell’inquietudine, c’è un’ombra che ci perseguiterà per tutta la durata del brano.
Certe chitarre lontane sembrano riproporre i lamenti notturni di un coyote che vaga su lande solitarie, ‘i lamenti del tempo’ che solo le chitarre lancinanti dei Thin White Rope sapevano disegnare nei cieli e sulle sabbie del deserto.
Chitarre calde che cercano di sciogliere il gelo circostante come quelle che ammiccano da Nightvision, o pigre e seducenti come quelle in Serpent Egg che puntano verso le terre più calde di un sud qualsiasi. Senza ombra di dubbio questo album sarà tra i primi nella mia playlist di fine anno.
Autore: A.Giulio Magliulo
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