L’accordo per distribuire negli States il suo prossimo film è frutto di una mezza Odissea. Ve la raccontiamo
Chi ha partecipato a un film sa che i titoli di coda nascondono inimicizie e dissapori, che dietro la piatta sequela di nomi in carattere bianco su sfondo nero si intravede al più la punta di un iceberg umano. Pensate a James Gray che un mese fa a Cannes pare abbia concluso con i delegati di Harvey Weinstein un accordo per distribuire negli States il suo prossimo film, ancora senza titolo definitivo, interpretato da Joaquin Phoenix, Marion Cotillard e Jeremy Renner. A prima vista è una fredda transazione, invece dietro c’è la storia di una rivincita di un regista-Davide su un produttore-Golia. Tutto ha inizio nel 1994, quando il 25enne James Gray vince il leone d’argento a Venezia con “Little Odessa”, un film con Tim Roth costato poco meno di 3 milioni di dollari. Quattro anni dopo la Miramax di Harvey Weinstein gli stacca un assegno da 20 milioni per finanziare l’opera seconda dal titolo “The Yards”. A trent’anni non compiuti Gray dirige un cast imponente: James Caan, Faye Dunaway, Ellen Burstyn, Mark Wahlberg, Charlize Theron e Joaquin Phoenix.
Il film partecipa nel maggio del 2000 a Cannes, ma prima di essere immesso nel mercato Usa iniziano gli attriti con il produttore che non si presenta alle proiezioni di prova, malamente pubblicizzate e difatti deserte. Gray si vede chiedere un montaggio ridotto che mortifica il film, una storia per cui la definizione “Noir metropolitano” è perfetta. La nuova versione però va anche peggio, allora viene riconsegnata al regista una insincera libertà sul final cut. Il terzo montaggio, più vicino a quello originale, non fa cambiare idea alla Miramax che preferisce non investire oltre sul film per evitare altre perdite. Il consenso troppo tiepido della critica suggerisce a Weinstein una repentina ritirata. “The Yards”, programmato in una manciata di sale, raggranella qualcosa come 1 milione di dollari, a fronte di venti spesi. Intanto Gray nelle interviste tratteggia un produttore dedito all’ingerenza totale, in ogni aspetto dell’impostazione dell’opera, un mogul pronto a rifarsi sul compenso del regista qualora un attore scelto da Gray in persona – in un ruolo secondario per giunta – non avesse funzionato. Passano anni di attesa infernale per il regista che vive un’incipiente sindrome di Cimino, o forse gli si addice di più la parabola di Welles, anche lui giovane esordiente (anche se plenipotenziario al debutto) destinato poi a una carriera da esule di Hollywood. Harvey Weinstein invece lascia alla Disney il totale controllo artistico della sua Miramax, e fonda la Weinstein Company con il fratello Bob. Il produttore-Golia è immerso in mille nuovi affari mentre il regista-Davide rimugina sul passato. Pare essere questo l’epilogo e invece… Gray mette mano a un altro film da venti milioni di dollari, di nuovo con Phoenix e Wahlberg, e stavolta non può sbagliare. Si chiama “We own the night” che vede la luce nel 2007. Di nuovo il passaggio sulla Croisette, poi la sfida al box office : incassa discrete cifre nel mercato americano, frutto di una distribuzione finalmente dignitosa, ma è l’Europa che rimane impressionata dal suo talento. Oltre a Regno Unito, Spagna, Italia c’è soprattutto la Francia a guardarlo con ammirazione, anche grazie a Chabrol che ricopre il ruolo decisivo di suo estimatore cinefilo.
Così Gray torna nel giro di un anno sul set per girare “Two Lovers” ispirato a Dostoevskij, primo film lontano dal mondo criminale che sinora è stato il milieu d’elezione delle sue storie. Copre nuovamente le spese al botteghino e anche stavolta la Francia stacca molti biglietti per scoprire la sua ultima fatica. Diventa quindi giurato a Cannes nel maggio del 2009, coronando il rapporto con la patria della Nouvelle Vague. Ancora : il francese Guillaume Canet lo sceglie come co-sceneggiatore del remake americano di “Les liens du sang” di Jacques Maillot dal titolo “Blood Ties”, tuttora in fase di riprese dirette dallo stesso Canet. L’inattività è ormai oltrepassata.Fosse stato un film Gray e Weinstein si sarebbero reincontrati senza gradualità, in un faccia a faccia frontale da western, ma entrambi si sono sicuramente studiati a distanza, hanno alimentato la loro curiosità per le gesta dell’altro sperando di cogliere una défaillance o un fallimento inequivocabile, e non per cattiveria, piuttosto per la semplice conferma di sapere che i metodi di lavoro dell’altro non sono quelli giusti. Il fallimento dell’altro serve a dare una certezza al proprio metodo. Ma non è possibile. Non ci potrà essere, in questo caso, la sfida da “c’è uno di troppo in questa città”.
Quanto più grandi sono i talenti più non si confondono, trovano spazi in totale autonomia. La realtà è capiente, anzi sterminata soprattutto per chi la slarga col proprio estro. Gray ha finito ora le riprese del film che ha definito da sé il migliore che abbia mai fatto, mentre Weinstein ha distribuito “The Artist” portandolo al trionfo degli Oscar. Un film muto, nel 2012. Ora lavoreranno di nuovo assieme. Forse non è una rivincita, forse hanno vinto entrambi, sia Davide che Golia, ma la vittoria di Davide è sempre più clamorosa.
Autore: Roberto Urbani