Dato che avvicinandovi a “The road” dei piemontesi Airportman collegherete giustamente il titolo al nome di Cormac McCarthy, occorre subito fare una precisazione: questo cd non ha niente a che vedere con il film del 2009, tratto dal romanzo dello scrittore americano e diretto da John Hillcoat, e non è quindi la colonna sonora di una pellicola, ma si propone piuttosto come possibile trasposizione in note delle pagine de “La strada”, con i tre Airportman non semplici commentatori di fotogrammi altrui ma creatori essi stessi di immagini tramite la forza evocativa di propri temi musicali ispirati direttamente dalla lettura del volume. Pubblicato nel 2006, premiato nel 2007 con il Premio Pullitzer e se ricordo bene – per quel che può valere – votato come miglior opera di narrativa straniera degli anni Duemila in un recente sondaggio indetto tra i lettori del quotidiano La Repubblica, “The road” inscena il viaggio di un uomo e di suo figlio in direzione dell’oceano attraverso un mondo da day-after dell’era nucleare, brullo, freddo, inospitale, cimitero di memorie umane e di detriti industriali, popolato solo da gruppi sparuti di predoni affamati.
Tramite una scrittura estremamente controllata nella sua palpitante scheletricità, McCarthy ci consegna la sua visione catastrofista del futuro primitivo che ci attende e soprattutto ci regala un’allegoria quanto mai efficace del rapporto tra padre e figlio, con il genitore che accompagna il bambino lungo il cammino della crescita per lasciarlo infine al suo destino di adulto in divenire.
L’attaccamento ostinato alla vita, la liturgia di gesti tanto semplici quanto essenziali, dialoghi ripetuti come fossero preghiere, una meta lontana da raggiungere a tutti i costi, il senso di un percorso che rischia quotidianamente di essere messo in dubbio, la forza cieca della speranza a stantuffare sangue nelle vene e a spingere le gambe là, sulla strada, in mezzo ad una landa piovosa, desolata, oltraggiata, annichilita, a tutto questo gli Airportman danno magicamente voce in un’unica traccia strumentale di oltre trenta minuti: impercettibili variazioni timbriche su un fondale cinereo, arpeggi reiterati di chitarra appena graffiati dal canto prima lamentoso e poi severo del violoncello di Mansueta Cinzia Mureddu, sospiri raminghi di sassofono a suggerire un possibile approdo, improvvisi bagliori elettrici.
L’estratto del libro recitato in inglese da Stefano Giaccone nei due minuti e mezzo di chiusura e il bellissimo artwork di copertina opera di Pier Defelice suggellano come meglio non si potrebbe questo disco coraggioso ed assolutamente riuscito.
Autore: Guido Gambacorta