Resistere al Covid-19 e a un mercato discografico sempre più in crisi si può. Ce lo hanno dimostrato Marino e Alessandro Severini, alias the Gang, che lo scorso 26 febbraio hanno pubblicato il loro nuovo disco “Ritorno al fuoco”, finanziato grazie ad un ricco crowfunding di ben €74.000, un record in Italia per un disco rock.
Con Marino abbiamo scambiato una piacevole chiacchierata nella quale, come al solito con lui, siamo partiti dalle canzoni di questo disco per toccare temi storici, sociali e, ovviamente, politici.
Per realizzare questo disco avete impiegato circa un anno, quindi come è stata la gestione del disco durante la pandemia, come avete proceduto e quali sono state le difficoltà principali?
Un delirio, è stato un delirio, ma come diceva Machiavelli, il fine giustifica tutti i deliri attraverso i quali noi siamo passati, ma chiunque lavora in tempi come questi affronta difficoltà non indifferenti. Noi abbiamo cominciato un anno prima che il disco uscisse. Già il 27 febbraio del 2020 avevamo finito le cosiddette parti italiane, che riguardavano me, Sandro, i cori, quindi da lì in poi Jono (Mason, il produttore, ndr.) tornato in America in un mese avrebbe finito il lavoro, invece con quello è successo, le cose si sono complicate. È stato difficile lavorare in studio con quello che è successo dopo, i tempi della stampa si sono allungati moltissimo, per non parlare delle spedizioni, ma finalmente ce l’abbiamo fatta e il disco sta arrivando intanto ai produttori.
Avete fatto per la terza volta la scelta del crowfunding, che nel caso vostro è stata una mossa vincente e per un gruppo indipendente come voi è diventato indispensabile per restare nel mercato discografico
Le vie delle produzioni dei dischi ormai sono infinite. Noi per fortuna abbiamo trovato questa formula della cassa comune, inoltre questa terza volta in tempi come questi in cui non abbiamo fatto concerti, per cui non ci sono state offerte dai locali, perché erano chiusi, nonostante tutto dalla cassa comune sono arrivati €74.000, i produttori sono 1.611. In Italia non c’è mai stata una raccolta come questa per la produzione di un disco. Significa che non c’è soltanto il valore del denaro, ma tanta stima, tanto affetto e questo aiuta non poco.
Stima e affetto che avete meritato, perché avete sedimentato nei cuori di tantissimi appassionati del gruppo e del genere che fate nel corso di tanti anni, per cui la scelta è stata vincente anche da questo punto di vista, nel senso che la storia vostra vi ha ripagato, ovviamente non soltanto in termini economici.
C’è stima e c’è fiducia, quindi ci sono tutte le caratteristiche per lavorare bene, al meglio delle possibilità. Se poi, un disco del genere viene fuori è grazie alle 1.611 persone che se ne sono fatte carico, non grazie ad etichette e multinazionali. Un dico del genere si è potuto realizzare grazie a 1.611 fratelli, amici e compagni che hanno permesso questo, che piaccia o non piaccia garantisce una qualità che poche altre produzioni hanno oggi in Italia. Il crowfunding ha una valenza politica, per me è importante, perché tocca l’essenza della politica, che è quello prima di tutto di porre un obiettivo, attorno al quale costruire una comunità, lavorando, dando stimoli, energie. Poi c’è la questione economica, perché con €74.000 tanti hanno lavorato e sono stati pagati per questo lavoro, quindi da questo punto di vista lo ritengo uno strumento politico.
Si può sopravvivere anche senza le multinazionali discograficiche?
Assolutamente, da cinque anni lo dimostriamo con i fatti e non producendo dei dischi di serie C, fatti male, lo vedi dai nomi dei musicisti, che sono di caratura internazionale, la qualità è assicurata, dico da buoni artigiani. Sono molto contento del risultato, in quanto artigiano.
“Ritorno al fuoco” è anche il terzo disco prodotto da Jono Manson, che ha coinvolto, come nei due dischi precedenti, musicisti statunitensi. Ma in questo caso anche pakistani, quindi la vostra rete internazionale si è ulteriormente allargata.
Si, grazie alle sue relazioni Jono cerca di coinvolgere musicisti che hanno delle affinità con noi, con il lavoro, con il progetto, ecc. In questo disco trovi un bel villaggio globale, ci sono musicisti messicani, bulgari, pakistani e poi ci sono dei nomi come Eric Ambel, che ha lavorato per anni con Steve Earle, la sezione fiati che ha suonato con Springsteen. Per noi è stato un grande onore aver potuto suonare con i musicisti pakistani, quindi il raggio si è allargato notevolmente dal punto di vista delle collaborazioni, questo soprattutto grazie a Jono, che è il grande timoniere degli ultimi lavori.
Con “Ritorno al fuoco” sembra che siate tornati a combat rock e alcuni brani mi hanno rievocato la Mano Negra.
Non lo so, ognuno ci trova il suo immaginario e ci ritrova i suoi amori.
Penso soprattutto a brani come “Un treno per Riace” e “El Pepe”, che immagino, quando tu e Sandro li avete composti abbiate voluto descrivere queste situazioni in maniera allegra, nonostante il dramma che ha vissuto Mimmo Lucano, il sindaco di Riace.
Io ho un’età da nonno, per cui noi raccontiamo delle storie, ad ognuna delle quali metti addosso dei vestiti, con la taglia giusta, con i colori giusti. Tu ci trovi l’allegria e la Mano Negra, va bene, l’importante è che quella storia arrivi, poi sta ad ognuno, se non la conosce, approfondirla. Le canzoni dovrebbero servire prima di tutto a questo, prima che a fare compagnia, ad allargare il cerchio il più possibile, insieme ai libri e al cinema. Per quanto riguarda l’umore, raccontare Riace, secondo me, ha significato raccontare un viaggio verso la luce, verso la positività. Non c’è niente di oscuro in questo, non c’è malessere, è una gioia infinita il viaggio verso Riace, quindi chi più dei mariachi, dal punto di vista dell’immaginario poteva descrivere quella situazione. Insieme poi a musicisti africani c’è un bel villaggio globale. Lo stesso vale per “El Pepe”, quale gioia infinita ci trasmette l’utopia uruguaiana? Sono canzoni e storie, che, almeno a me, trasmettono una grande positività, una grande luce, un orizzonte nuovo sul quale vale la pena incamminarci.
È un caso che, geograficamente, parliamo di situazioni che si trovano nei sud del mondo?
Una volta si parlava del sud, oggi si parla più di est e ovest. In realtà per me l’atteggiamento è più che altro di colui che non ne può più di questo paese che si chiude sempre più in se stesso e poi con questa volgarità di base: tutto è finito, ormai non c’è più niente da fare, adattiamoci allo stato delle cose. No, perché c’è l’Uruguay col Pepe, che è un signore che ha la sua età, ma ai giovani trasmette una grande luce, insieme a Chomsky, anche lui non giovanissimo. C’è il Rojava, un’altra delle grandi rivoluzioni umaniste e poi c’è Riace, attorno al quale bisognerebbe ritrovare una direzione, perché se lì si è fatto, noi lo dovremmo rifare. Queste sono situazioni che incamminano, il futuro c’è in ognuna di queste situazioni, quindi se noi vogliamo costruire il futuro, dovremmo per forza allearci a queste situazioni, imparare da queste realtà. Il chiudersi in se stessi nasce dalla paura, dalla non conoscenza, ecco perché l’invito a conoscere.
C’è una canzone, “Azadi”, che è uno dei posti più militarizzato al mondo, mi stupisco che non si parli del Kashmir, eppure lì c’è un’Intifada da tanti anni da parte dei giovani che vengono repressi dalla polizia indiana, per cui la canzone aiuta a capire che cosa succede da quelle parti. Allora portando il tuo granello cerchi di costruire una spiaggia nuova, se la canzone ti emoziona, cerchi di suscitare interesse per andare a scoprire che cosa succede in Kashmir. Questa è la nostra parte.
Una canzone come “La banda Bellini” l’avete scritta perché c’è ancora bisogno oggi di banditi senza tempo?
Sempre, ce ne sarà sempre bisogno. Il fuorilegge è colui che viola la legge, per affermare il principio. Il fuorilegge è un baluardo della civiltà e della democrazia. Una volta che la legge dimentica o non assolve il principio per cui essa esiste, è normale che entra in gioco il fuorilegge, che ristabilisce la verità del principio e la riafferma sulla legge. Questo è inevitabile. Il fuorilegge deve sempre esistere, va garantita la sua esistenza. Poi la storia della Banda Bellini, soprattutto per chi ha vissuto a Milano negli anni ‘70, era leggendaria. Le loro gesta nelle manifestazioni degli anni ‘70 mi vennero raccontate dai compagni nei primi anni ‘90, non avevo mai scritto questa canzone, nonostante ce l’avessi lì e ogni volta dicevo ‘ora la tiro fuori’, poi il libro omonimo di Marco Philopat ha rinverdito di più la memoria dei Bellini. Andrea Bellini è andato con lui in giro alle presentazioni del libro, per cui molti hanno conosciuto il personaggio e ora mi sembrava il momento giusto di metterla insieme a un’altra decina di canzoni, quindi questa canzone sta bene in questo contesto.
Sempre a proposito di leggenda nel brano avete inserito un omaggio al Morricone western.
Si, perché loro, quando andavano alla manifestazioni, invece, di cantare ‘Bandiera rossa’ o ‘Bella ciao’, cantavano ‘Sean Sean’, tanto è vero che a Milano c’è anche un murales con la scritta ‘Sean Sean – Banda Bellini’. Questa è una delle caratteristiche che la Banda Bellini fece da ponte tra la fine degli anni ‘70 e quello che fu poi il punk. Ci fu uno stile che con loro per la prima volta si affermò all’interno del movimento, che poi con il punk prese il sopravvento, cioè la rivolta della strada, quindi le subculture, a metà tra quello che era prima e quello che poi c’è stato, per questo Marco li riprende dopo tanti anni.
Perché ‘A Pa’’ l’avete inserita qua e non in ‘Calibro 77’?
L’ho sempre considerata una delle più belle canzoni che ho ascoltato in vita mia. Secondo me è una canzone perfetta. Poi, De Gregori rilegge Pasolini in moda restituirgli la sua interezza, perché Pasolini viene continuamente preso a destra e a sinistra e fatto a pezzi, le iene si avventano sempre sul cadavere di Pasolini. L’emozione che quella canzone mi trasmette è quella di un Pasolini nella sua interezza, o per lo meno nella sua memoria, che poi è il Vangelo secondo Matteo: “Voglio vivere come i gigli nei campi, e sopra i gigli dei campi volare”, c’è una grande luce attorno a Pasolini, quindi ho pensato che insieme a “Concetta” e a “Via Modesta Valenti”, ma anche a tutto il resto, questa luce poteva stare bene insieme, poteva far tornare Pasolini nella sua interezza. La canzone l’ha scritta De Gregori, ma noi l’abbiamo un po’ rivisitata e fatta un po’ nostra. Trovo anche questa in buona compagnia.
Riguardo “Via Modesta Valenti”, qual è il rapporto dei Gang con la spiritualità?
Sono anni che insisto, anche nelle grandi dispute della sinistra, sul fatto che il futuro si costruisce semplicemente con le nostre tradizioni. Le tradizioni che dovrebbero dare l’avvento a un nuovo umanesimo sono la tradizione cristiana e la tradizione socialista-comunista e la tradizione delle minoranze. Nel lavoro dei Gang queste tre tradizioni si attivano, stanno insieme, si incontrano, quindi non c’è una spiritualità in questo, c’è semplicemente un discorso culturale e spero che un giorno diventi anche politico dell’incontro di queste tradizioni, tra cui quella cristiania, che c’è quasi sempre nei dischi dei Gang. Poi penso che le Sacre scritture siano dei libro che contengono una gran saggezza e di etica per me che non ho il dono della fede. Sono libri che continuo a leggere insieme ad altri quattro-cinque classici. È normale che poi questo torni e rimbalzi dentro alcune canzoni. Questi riferimenti fanno parte della nostra tradizione. Nessuno può dirsi non cristiano, può definirsi non cattolico, perché degli insegnamenti sono tratti dal cristianesimo, come ci sono quelli tratti dal socialismo, dal comunismo e in particolare da Gramsci, o dalla minoranze. Io cerco sempre di farle incontrare, perché da questi può nascere veramente un umanesimo.
In questo disco, forse ancora di più rispetto al passato, avete affrontato questioni romantiche. Una canzone come “Amami, se hai coraggio” come è venuta fuori?
Le canzoni dei Gang sono tutte canzoni d’amore. “Via Modesta Valenti” non è una canzone d’amore? “Sesto San Giovanni” non è una canzone d’amore?
So benissimo che per voi tutte le canzoni che scrivete sono d’amore, nel senso più largo e collettivo del termine, ma raramente vi eravate soffermati su una canzone d’amore intima tra due persone e “Amami, se hai coraggio” mi è sembrata molto efficace.
L’amore passa attraverso tante realtà. Do per scontato che ci sia anche una puntata come quella in ogni disco, è chiaro che non ne faccio dodici sulla stessa relazione. Ci sono anche “Vorrei”, “Bruciamo l’anima”, che sono anch’esse canzoni intime. Come si diceva una volta ‘il privato è politico’ e viceversa, quindi è bene che anche il privato venga cantato, poi ognuno l’allarga e la stringe come gli pare.
Restando nell’ambito del privato, una canzone come “A volte” possiamo farla rientrare nel filone di quelle esistenzialiste, come ‘Oltre’?
Io non devo dare il segnale stradale, ognuno è liberissimo di interpretare le canzoni come crede. Spero che ci siano più interpretazioni possibili, rispettando l’immaginario di ogni singolo. Ci vuole sempre un atteggiamento disarmante nei confronti di quello che uno racconta. l’abbraccio è disarmante per forza di cose, questa è una canzone che tende ad abbracciare l’ascoltare. Racconta una parte non mia, personale, ma una parte di ognuno di noi che è estremamente fragile. La forza sta proprio nel raccontare la propria fragilità. Le persone veramente forti non hanno paura a manifestare le proprie fragilità, quindi è un momento di svelamento dell’anima.
Da dove viene la storia tragica raccontata in “Concetta”?
Avevo sentito questa storia, che era vicino a quello era successo alla TyssenKroup poco tempo prima. Poi me la sono ritrovata con il libro di Gad Lerner ‘Concetta. Una storia operaia’ (edito da Feltrinelli, ndr.), allora sono tornato su quella vicenda, che poi ce n’erano tante di vicine a questa, in qualche modo, però ho preferito raccontare questa di concetta, perché attraverso la sua storia, uno denuncia quello che è lo stato delle cose di Settimo Torinese, di quelli che erano allora i capisaldi del movimento operaio, delle lotte operaie di Torino e la fine di tutto questo. Quindi è una canzone che in qualche modo racconta una vicenda privata, ma si allarga fino a quello che è diventato Torino oggi. Come altrove avevamo raccontato in “Sesto San Giovanni”, che era la Stalingrado della classe operaia. Tutto questo come finisce? Finisce in modo tragico.
Quindi “Concetta” descrive anche l’epilogo della classe operaia?
Come “Sesto San Giovanni”, senza dubbio. La questione è che la classe operaia in Italia si è sempre cantata, quando questa lottava e stava vincendo. Quasi nessuno l’ha cantata nel momento della sconfitta, ma cantarla nel momento della sconfitta è impegnativo, perché vuol dire che: ‘anche se hai perso, se sei sconfitto, io sto con te’. Quindi sono cazzi vostri quando cantate “Sesto San Giovanni”, che non è un inno glorioso della classe operaia, ma è un inno nel momento della sconfitta, ‘anche se hai perso, io resto con te’, è quindi una promessa.
Infatti in “Sesto San Giovanni” gli arrangiamenti sono malinconici, non ci sono le fanfare o i mariachi.
Anche in “Concetta”, che può essere una rivisitazione odierna della “Vincenzina” di Jannacci.
Appena possibile partirete con il tour?
Io partirei anche domani, ma qua la situazione è quella che è e non si capisce quando potremo ripartire, speriamo in estate grazie al clima e ai vaccini. Ora è tutto un forse e poi non so che cosa troveremo fuori, una volta che finisce questa situazione tutto questo. Non sappiamo che cosa sarà ancora aperto, quali organizzatori lavoreranno ancora. Noi abbiamo delle date ad aprile e luglio, ma non lo so, se queste andranno in porto.
Nel frattempo state componendo nuovi brani?
No, nel frattempo sto cercando di capire che cosa devo fare da grande. La nostra principale fonte di guadagno da anni sono i concerti. Non suonando dobbiamo capire anche in rete, che fare, perché l’unica strada aperta resta quella, quindi se ci saranno degli appuntamenti in streaming, non so delle collaborazioni, ma sicuramente non dei dischi nuovi. “Ritorno al fuoco” dobbiamo raccontarlo, farlo girare anche con noi fermi da casa. L’unica possibilità è la rete. È quello che stiamo facendo, qualcosa in radio, nei blog, qualche giornale, qualcosa che allarga il cerchio nello stagno.
http://www.the-gang.it/
https://www.facebook.com/gang.official
LA RECENSIONE DELL’ALBUM
Gang – Ritorno al fuoco (Rumble Beat)
Dopo circa un anno ce l’hanno fatta! Finalmente i fratelli Severini sono riusciti a pubblicare il loro nuovo disco che ha avuto una lunga gestazione. La registrazione del disco, finanziato con il crowfunding ha subito un rallentamento con lo scoppio della pandemia poichè alcune tracce sono stare registrate in Italia, altre negli Usa e in Canada e altre ancora in Pakistan. Prodotto anche questo disco da Jono Manson, al suo terzo lavoro con i fratelli di Filottrano, “Ritorno al fuoco” nelle sue undici canzone è perfettamente in equilibrio tra ballate, combat rock, grande cantautorato e omaggi. L’età che avanza non ha minimamente scalfito la loro anima clashiana e barricadera, come dimostra “Rojava libero”, con le sue chitarre affilate e con gli ottimi intrecci tra le sei corde, le tastiere e santur. Eccitante poi l’omaggio ai ‘banditi senza tempo’ de “La banda Bellini” con una marcetta folk-rock nel quale viene omaggiato il Morricone dei film western. Restando nelle ambientazioni western “Dago” è un’ottima cavalcata country-rock. Sulla stessa scia in qualche modo collochiamo anche la messicaneggiante “Un treno per Riace”, allegra e dai forti risvolti pop e il folk-pop-rock di “El Pepe”, dedicata all’ex presidente dell’Uruguay. Se “A pa’” di De Gregori é un’ottima cover, che non avrebbe affatto sfigurato su “Calibro 77”, le ballate hanno il sapore malinconico e mistico di “Via Modesta Valenti”, il romanticismo di “Amami, se hai coraggio”, il dramma del suicidio di “Concetta” e l’esistenzialismo di “A volte”. La grandezza di questo disco consiste nel volare alto e leggero, perché apre il cuore, ma fa anche riflettere profondamente su tanti aspetti importanti della vita e della società.
autore: Vittorio Lannutti