In occasione del loro intensissimo tour italiano, che farà tappa a Napoli il 29 marzo (per poi proseguire a Bari il 30 marzo, 3 aprile a Firenze e il 5 aprile a Bologna) abbiamo incontrato Matteo Morbici, frontman dei milanesi Canova, giovanissima rock band che sta facendo parlare molto di se grazie ad un rock energico dal piglio cantautorale. Pubblicano per la rinomata Maciste Dischi che nel roster ha anche Galeffi e Gazzelle, altri due casi nazionali di pop e rock di nuova generazione che sta spopolando in Italia.
La prima curiosità è legata alla biografia che avente sulla vostra pagina Facebook, semplicemente: “Canzoni, chitarre, tastiere, sigarette”, dovendovi dare la connotazione immaginaria che vi rappresenta pensate sia ancora questa?
Guarda è rimasta abbastanza quella, sono proprio i nostri ingredienti. Una bio che ci portiamo ancora dietro, posso dire che di base rimane ancora quella vita lì.
Continua la collaborazione, in “Vivi per sempre” con il produttore Matteo Cantaluppi che ha seguito anche la lavorazione al vostro primo disco “Avete tutti ragione”(2016), come cambiano, con lui ovviamente, le direzioni sonore e le scelte stilistiche?
Ti dico che nel primo disco lui aveva solo mixato e non aveva prodotto l’album ma c’era già un rapporto di grande stima, questo disco invece, in virtù anche della grande fiducia, glielo abbiamo proprio affidato. Lui è stato molto bravo nel lasciarci molta libertà, mai a gamba tesa su tante cose, ci ha dato una coerenza sulle varie tipologie di suono. Noi da band avevamo da subito le idee chiare, lui ci ha dato quella visione di insieme, apporto fondamentale. Lavoro totalmente diverso dal primo che era praticamente autoprodotto da noi, qui ci siamo molto affidati a lui anche dal punto di vista di consulenza sonora.
Rispetto, sempre, all’uscita di “Vivi per sempre”, mi sono lasciato condurre dalla tracklist da voi proposta, come giusto che sia non solo per i concept album. Mi incuriosisce molto la scelta della collocazione dei brani, si parte con “Shakspeare” brano molto intimo e autobiografico e si conclude con “Vivi per sempre”, traccia che non solo da il titolo al disco ma che diventa pezzo irriverente, disturbante nella sua amara irrequietezza emotiva, nulla di appagante e autoconclusivo, ma quasi una ferita aperta.
“A me fa molto piacere questa cosa notata, noi ci abbiamo fatto ovviamente casi da consumatori di album che siamo fin da ragazzini. Siamo molto lontani da alcune attuali dinamiche di ascolti casuali da playlist ma attenti alla successione di ascolto degli album. Abbiamo voluto dare un tracciato, questa cosa nasce fin dall’inizio, scegliere tra tanti solo nove brani, che fossero, che potessero dare all’ascolto delle curvatore tra tematiche e musicalità. Abbiamo iniziato il disco con un brano che si chiama “Shakespeare” e che apre anche i nostri concerti, proprio perché volevamo dare quella collocazione immaginaria teatrale, da apertura di tende da palcoscenico. Una sorta di intro perfetto anche senza ritornello. La maggior parte dei dischi che ascoltiamo, anglofoni, anche lì ci piace molto ascoltare l’aria che conferiscono gli inizio, che aprono un discorso. Si conclude con il brano che da il titolo al disco, pezzo si deprimente, apposta alla fine, per non lasciarlo in mezzo, anche con cattiveria che potesse lasciare male. Questo non sarà il nostro ultimo disco, l’ultima traccia vale come un ponte verso un futuro. Quando scriviamo non ragioniamo tanto, scriviamo di getto, ma quando decidiamo queste cose c’è sempre una selezione che possa essere molto coerente e credibile.”
Ho notato appunto che tutto l’album ha una precisa andatura, delle curvature tra effetti emotivi che vanno dal disincanto nostalgico di “Goodbye, Goodbye”, ad esempio, all’ottimismo di “Ramen”, precise traiettorie emozionali giusto?
“Si certo, cerchiamo di fare dischi non ci siano hit e poi pezzi di riempimento, ma cerchiamo di creare un preciso percorso e discorso tra un pezzo e l’altro. Le canzoni spiega molto bene noi chi siamo.”
Se dovessero chiedermi il primo aggettivo di definizione del progetto Canova userei la parola autenticità. Oggi il grande quesito legato all’ampia struttura del pop con sfumature interconnesse è quello legato all’hype, ne parlano i Coma Cosa nell’ultimo disco come i Pinguini Tattici Nucleari o la bolla citata da Rolling Stone. Certe atmosfere legate all’itpop tra lo stiloso e l’autentico, quanto pesa sentirvi accostati a certe categorizzazioni? Quanti invece liberi e pop vi sentite?
“Da quando siamo partiti siamo sempre stati esterni a queste situazioni di hype. Cerchiamo di muoverci sempre distanti da certe operazioni “social”, abbiamo sempre cercato di dimostrare e di non essere volutamente di moda. In questo disco, in effetti, non abbiamo strizzato l’occhio a nessuno, volevamo fare un disco come meglio ci rispecchiasse, non siamo figli dell’hype, viviamo certe situazioni al di fuori.”
Vi sentite quindi una vera band?
“Si, più che altro siamo stati fortunati, il nostro primo disco è uscito in un momento perfetto. Dove quel tipo di canzoni e di sound era perfetto in quel periodo, ma probabilmente due anni prima o dopo l’avremmo realizzato comunque, magari avendo minor fortuna, ma ci rappresenta davvero”.
Tra l’altro l’ultimo Festival di Sanremo ha sdoganato un po’ quel presunto labile confine che esisteva tra la scenda indie e quella pop, finalmente tutto per tutti.
“Si, sicuro. La cosa positiva ora è che nel pop il ventaglio è molto ampio, ognuno può ascoltarsi quello che vuole, come avviene all’estero. In Italia per qualche anno c’è stato questo blocco legato agli ascolti, oggi come detto, a seconda dei gusti, ognuno è molto libero di ascoltare ciò che vuole”.
Poco hype, come detto, e tanta sostanza, in voi si sente ancora quell’attitudine granitica di band che ha una cultura e un background da club, da piccoli palchi, da contatto con il pubblico, ristagna questa bella sensazione.
“Si per forza, oggi questa cosa ci da tanta forza in quello che facciamo quasi ogni giorno, altrimenti sarebbe una sofferenza viverla come hype o come sola attitudine.”
Spostandoci sull’aspetto grafico legato alle vostre cover album, mi incuriosiva il riferimento ai tag da Instagram, una sorta di messaggio subliminale a tutti gli haters?
“Ti dico che un pochino può essere inteso come uno sfottò legato a questa idea “social” che gira attorno alla musica. Quando abbiamo fatto la copertina del primo disco, in primis pensavamo di ascoltarlo noi e basta (ride) e ci piaceva l’idea di questi tag, per il secondo disco abbiamo deciso di proseguire, guardando da lontano i nostri dischi in futuro potranno essere legati da un comune denominatore che ha comunque caratterizzato il nostro tempo e la nostra epoca. Magari un domani non ci sarà più Instagram ma magari possono essere contestualizzati in una determinata era, rappresenta molto i tempi nostri, portare un disco fuori da uno schermo”.
Spostandomi sempre nell’ambito della progettualità visiva dalle cover album alla produzione dei videoclip mi piaceva capire bene la lavorazione ad essi, dall’ausilio di giovani registi come Zavvo Nicolosi al citazionismo cinematografico, in “Goodbye, Goodbye”, ad esempio io ci vedo “Her” di Spike Jonze o “Lost in traslation” di Sofia Coppola.
“Assolutamente, stiamo molto attenti ai video e alle scelte dei registi, noi diamo molta carta bianca, come ad esempio a Zavvo appunto, o ai ragazzi di Bendo, a patto che noi possiamo ritrovarci in un determinato linguaggio e con loro siamo riusciti, ci siamo molto soddisfatti sul versante della realizzazione dei videoclip, con loro abbiamo approvato scelte al 100%”.
Dalle immagini alla realtà, contesto live, tanto tanto legame e fisicità nel rapporto tra i Canova e la loro fan community, quasi una emulazione alla Nick Cave e come inoltre si esce vivi dalla prova estenuante di un tour quasi infinito?
“Estenuante ma per noi fondamentale, quasi 120 date negli ultimi 8 mesi, una follia. Noi abbiamo un gran bel rapporto con chi viene a sentirci, le nostre canzoni prendono una vita nuova a seconda di come vengono reinterpretate, magari anche canzoni apparentemente tristi e trasformate in momenti di felicità, è una roba assurda che sta alla base di quello che facciamo, viviamo i concerti, infatti con grande foga e grande trasporto”.
Vero quindi, che portate in tour una cover di “Rolls Royce” di Achille Lauro e come mai questa scelta?
“Si è vero, deciso due giorni prima di partire in tour, arrangiata in poco e che avremmo voluto scrivere noi, un po’ ci appartiene come attitudine e che si colloca bene in quella fase del concerto quando la suoniamo”.
“10 personaggi in cerca di Vodka”, romanzo di Matteo Morbici che oltre all’attività di frontaman dei Canova, sempre a che fare con le parole, ma scrittore per diletto.
(Ride) è stato un periodo folle, di giorno scrivevo il libro e di notte le canzoni, tutto in un mese e mezzo poi. Esperienza nuova, all’inizio la proposta sembrava assurda ma poi mi sono detto perché no, sia la scrittura delle canzoni che di un testo sta tutta nella questione di comunicazione, oltretutto la Rizzoli (casa editrice) mi ha lasciato ampia libertà e conoscendomi non sarebbe potuto essere altrimenti, totalmente carta bianca e mi sono lanciato in questa avventura”.
https://www.facebook.com/Canovalaband
autore: Claudio Palumbo