Di Fatih Akin, con Adam Bousdoukos, Moritz Bleibtreu, Birol Ünel, Wotan Wilke Möhring, Jan Fedder, Peter Lohmeyer
Effetti collaterali: qualcuno. Vi può venire fame (tanta), vi può venire voglia di lanciare coltelli, vi può scappare una gran fregola di fisioterapia (con manipolazione bengalese); desiderio battente di chupitos a rhum, brindisi col prosecco, bicchierini di johnnywalker. Vi potrebbe venire voglia di ballare o di passare i dischi e di scoparvi la cameriera del vostro sudicio baretto amico. E jà, una botta di vita: voglia di passeggiare sui tetti di Amburgo e di ronfare sul pavimento di un attico coi sorci. Asteco e ciel’.
Questo film, s’era capito, è un catalogo di voglie, appetiti frullati ai ritmi funk e soul stesi da Fatih Akin sulla schiena malridotta del protagonista. Ossia un greco (l’attore è Adam Bousdoukos), emigrante nel lander tedesco più a nord, che assomiglia spudoratamente al Pino Daniele di Terra mia. La terra sua però non è la Grecia e forse manco Amburgo ma il perimetro del Soul kitchen, il bistrot dove, all’inizio, servono i sofficini e poi, da anatroccolo a cigno, diventa club-ristorante stracool, in zona porto.
Il vapore colorato della “Sposa turca”, gioiello con cui Akin s’è presentato al mondo del cinema, si espande ora anche sulla costa teutonica, porto delle nebbie ma anche dei sogni per una generazione di immigrati sballottati dall’euro che sale e dalla felicità di orge sessuomusicali e gastronomiche. “La vita è quella cosa che accade mentre sei impegnato a fare altri progetti” strilla la didascalia in locandina citando John Lennon. E infatti al nostro ne capita una al secondo. Amore, cibo, musica, lavoro, persino morte: ogni “voce” ha il suo lambiccato bianco e il suo perfetto nero (lo yin e lo yang, ci tirerebbe le orecchie un filosofo mandarino).
Il film, ben diretto, con un eccesso di grandangoli, è divertentissimo anche se ogni tanto corre su fili prevedibili, ma giusto mezzo attimo prima che accadano. La sbrigatività con cui la sceneggiatura risolve certi punti chiave è disarmante ma tutto viene perdonato in nome della pura vida: degli occhi e della pancia. Da segnalare il cuoco (Birol Ünel) che prosegue tra gli applausi il genere “delicatessen pulp”. Menzione d’onore per i titoli di testa e, soprattutto, di coda.
Autore: Alessandro Chetta