La band di Dublino di Conor O’Brien, con Tommy Mc Laughlin, Danny Snow, James Byrne e Cormac Curran, dal nome e dal curriculum è più irlandese che non si può. Eppure la loro musica non è il folk delle brughiere, né il rock-pop incantato che negli anni ’90 tanto ha fatto sognare con Cranberries, Ash e Corrs.
In questo quinto disco, che segue Becoming a Jackal del 2010, il loro esordio, Awayland del 2013, Darling Arithmetic del 2015 (forse il loro capolavoro) e The Art of Pretending to Swim del 2018, e che viene pubblicato sempre per etichetta Domino a distanza di tre anni secondo una regolarità perfetta che molte poche band rispettano, la loro musica è talmente evanescente da sembrare non aver radici territoriali. Sin dalle prime battute, con The First Day che segue la intro breve di Something Better, siamo lanciati in un’atmosfera musicale sospesa, senza un vero ritmo, sempre soffusa e calda, e costantemente orchestrale. Ma senza assoli, punte, picchi melodici, in realtà senza neppure dei veri ritornelli.
Diciamolo subito: il difetto del disco è il suo essere mono-tono. Le canzoni si assomigliano troppo, e sembrano un’unica incessante esecuzione dai toni bucolici, trasognati, che all’inizio possono affascinare, soprattutto in So Simpatico, la canzone più lunga e meglio arrangiata grazie a un sax finale che dura diversi minuti, ma a un certo punto stancano. Song in Seven e Momentarily non hanno niente che le distingua da The First Day, il primo riuscito singolo, e So Simpatico, la canzone più bella del disco. Circles in the Firing Line, a metà disco, tenta di dare un che di differente, soprattutto con le chitarre punk del finale, ma è uno stacco troppo breve. Le track dalla 7 alla 10, poi, perdono anche il ritmo poppeggiante e diventano delle ballate lente, ma una dopo l’altra, tutte simili, risultano anche un po’ indigeste a tratti.
Si cerca insomma un dream-pop, ma qui non c’è epica, non ci sono toni alti, non ci sono evoluzioni, e il cantato è totalmente fisso in una sola tonalità. Passione e calore ci sono: alcuni momenti sono veramente dei “fever dreams” come dice il titolo del disco, e lasciano parecchie suggestioni. Ma sono momenti di una canzone, e non canzoni intere. E il disco, che vorrebbe essere di contemplazione estatica dell’universo, finisce per essere un disco di troppa lentezza e toni troppo uguali.
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autore: Francesco Postiglione