Non c’è dubbio: In this Light and On This Evening è destinato a diventare il caso discografico dell’anno. Perché c’era tanta attesa dietro il terzo album (che è sempre una tappa fondamentale per ogni musicista) di questa band che aveva spaccato tutto con i primi due e si era candidata a essere una delle migliori rock band del pianeta nei prossimi anni.
Perché già da un anno gli Editors avevano annunciato un radicale cambio di sonorità, e la sperimentazione sempre più insistente di sintonizzatori e tastiere, preannunciando una svolta dalle chitarre all’elettronica.
Perché già da un anno si conosceva il nome del produttore, ed è un nome da brivido: Flood, produttore degli U2 degli anni ’90 e dei Depeche Mode, e quindi assolutamente vicino a quella svolta elettronica che gli Eds stavano preparando.
Ora che lo si può ascoltare, il disco lascerà parlare di sé nel bene e nel male, per molto tempo. Ci saranno i fan della prima ora delusi, e quelli entusiasti che salutano il rinnovamento. Ci saranno gli esteti del synth che festeggeranno, e i puristi della chitarra che condanneranno.
Il meno che si può dire con atteggiamento doverosamente neutrale è che in molti passaggi gli Editors sembrano aver voluto di proposito riconoscere quel tributo di imitatori dei Joy Division che molti gli avevano appioppato addosso: la prima canzone, tilte track dell’album, sembra veramente scaturita dalla vena compositiva di Ian Curtis. In This Light and On this Evening è, come Tom Smith dichiara, una canzone che cerca di cogliere un paesaggio futuristico di Londra al farsi del crepuscolo: nella sua concezione, l’ideale colonna sonora di una Londra da Blade Runner, accompagnata da un tono particolarmente cupo e spettrale del cantato. Simile o no ai soliti Editors, questo pezzo è davvero sorprendente, ed è coraggioso metterlo a inizio scaletta.
Già con Bricks and Mortar si sentono, dietro i sintonizzatori e gli effetti, gli Editors di sempre: mancano le chitarre di Chris Urbanowicz ma non manca l’ispirazione di fondo, il marchio di fabbrica degli Editors che è quel sound epico e caldo, gestito dalla voce cupa e contemporaneamente accogliente e suadente di Tom, altisonante, positiva. La si ritrova, questa ispirazione ancora più calda, in Like Treasure, forse il pezzo migliore dell’album.
Papillon, il primo singolo, e You don’t Know Love sono ancora due pezzi molto Editors, anche se rivestiti di copertina nuova. Ma è qui che si capisce, purtroppo, che questa copertina elettronica innova, ma non migliora. Arrivati alla terza canzone, proprio perché accompagnati dalla voce di Tom che è sempre la stessa meravigliosa di sempre, si sente la mancanza di quelle chitarre di Chris così tipiche del loro sound. E sì che ci starebbero bene in Papillon, o meglio ancora in Eat Raw Meat, altro pezzo dinamico e bello dove gli effetti sembrano voler nascondere a bella posta l’assenza di riff. Per non parlare poi del contributo del bassista Russell Leech e del batterista Ed Lay, praticamente nullo relativamente ai loro strumenti. Indubbiamente l’album cresce ad ogni ascolto, ma ascoltate a confronto qualunque pezzo di An End Has A Start e si noterà che manca l‘energia travolgente, per via dell’assenza di ogni sessione ritmica degna di questo nome.
The big Exit e soprattutto The Boxer sono a metà tra i Depeche (la prima) e i Simple Minds della prima ora (la seconda), ma complessivamente non sembrano contribuire ad elevare il livello dell’album. E non certo il suo ritmo, troppo monotono dietro le batterie elettroniche.
L’altisonante ed epica Walk the Fleet Road (con un intro che è chiara citazione dei Depeche) chiude bene, e con i toni giusti, un album controverso, che resta affascinante e ti costringe a riascoltarlo per meglio capirlo, ma dove l’elettronica sembra essere uscita dai suoi confini, ed essersi spinta dove non doveva, in maniera quasi totalizzante, anche se, nelle parole di Tom, i quattro hanno cercato “di dare alla macchina uno “human feel”.
Ciò che resta interessante è che Tom, in una lunga lettera ai fan, definisce quest’album comunque un momento dark, un album che parla di delusione politica, di storie d’amore spezzate, ma senza paura di farlo. “Il dark è interessante, è eccitante, può essere divertente, c’è vera vita nel dark, e in fin dei conti il dark è quello che esprime meglio noi stessi e probabilmente se volessimo fare musica d’altro tipo diventeremmo noiosi”.
Al di là dell’evidente coraggio nell’aver voglia di svoltare e non appagarsi del successo, la questione è se la svolta fa bene agli inglesi, e se poteva esser fatta meglio. Se rende onore alle indiscutibili capacità dei quattro, se è degna di un terzo album che dovrebbe essere quello della conferma definitiva. A noi sembra dover dire di no, e questo dispiace. Il calore e l’epica degli Editors possono trovare nei synth e negli effetti un sano momento di creatività, o di sperimentazione, ma non possono sostituire quello che gli Editors sanno fare meglio (e che dimostrano di saper fare negli inediti che accompagnano l’album ufficiale nell’edizione deluxe, dove, guarda un po’, ritroviamo chitarra basso e batteria: ma perché queste scelte commerciali folli?, ndr). Per quello, c’è bisogno della chitarra. Di quel riff tutto loro che speriamo di ritrovare nelle esibizioni dal vivo, (così tanto rock quando Tom urla suda e salta sul pianoforte), a Roma il 3 dicembre e a Milano nella ormai classica sede dell’Alcatraz il 4. E lì i nodi verranno al pettine.
Autore: Francesco Postiglione
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