Lo so, sarà brutale dirlo, ma certi gruppi dovrebbero farsi vivi solo ogni tot anni. Suonare garage è difficile e chi lo fa per sport di solito ne tira fuori solo mostri. Arduo fare della bella musica soprattutto se si usa uno scully con quella laboriosa procedura di tensione del nastro. Arduo se si è in bassa fedeltà di tecniche e di relative filosofie assortite o se la testa viaggia su binari adolescenziali o post.
Suonare garage, suonarlo bene intendo, vuol dire farsi un mazzo tanto. Poi c’è gente che produce cose divertenti, sforna con quasi le stesse idee di trent’anni fa album a pile e ci fosse un recensore che li stroncasse almeno una volta. Ma per chi suona con tanta foga e intenzionalmente vintage sarebbe necessario una resa di tanto in tanto proprio per far depositare i pensieri su un fondo di pietra.
Gli Oblivians l’hanno fatto, esagerando magari un po’ visto che prima di questo Desperation edito per la solita Crypt hanno optato per sedici lunghi anni di gestazione. Jack Yarber nel frangente è risultato un tantello più incisivo, sfornando due album e un EP con svariate collaborazioni in giro, di Greg Cartwright che si è fiondato sulla produzione di Mr. Airplane man e Deadly snakes. Anche Eric Friedl si è dato da fare parecchio, fondando e animando la Goner di Memphis. Ma tutti e tre non si trovavano a registrare in studio da un pezzo e di preciso da quel riuscitissimo Play nine songs with mr. Quintron del 1997.
La famiglia non è cambiata e dimostra fin dall’attacco di I’ll be gone, preciso, crudo e spocchiosamente punk, di non aver perso né piglio né postura dritta. Sedici anni sono tanti e forse sarà passata per la testa di uno dei tre membri, l’idea orribile di diventare un po’ troppo canuto, ma ad un primo ascolto si direbbe il contrario. Così sporchi e così precisi non si erano mai sentiti.
L’assolo della chitarra in Em è un graffio al perbenismo, stesso discorso per l’inconfondibile verso ipnotico di Run for cover, per il garage sincopato di Come a little closer o il surf di Little war child che non concede distanze o per il semplice ritornerllo di Fire detector che entra nel cervello in un minuto.
Se ci fosse ancora ombra di dubbio sulla loro fede garage sempiterna è caldamente consigliato l’ascolto di Lovin’ cup, cover del Paul Butterfield più fecondo, classe 1964.
Questi Oblivians sono più bravi degli Oblivians sbarbati di Soul food. Sarà da paraculi dirlo, ma certe esperienze vanno e certe proprio non devono andare. Il trio di Memphis ha dalla sua la capacità di autogenerarsi di continuo e di accorciare le lunghezze con nitida disinvoltura. Stupendi e inconfondibili.
autore: Christian Panzano