Diciassettesima edizione, ed un bel venerdì 17 in calendario. Se fossero stati superstiziosi, gli organizzatori de La Route Du Rock non avrebbero dormito sogni tranquilli. E invece, molto probabilmente avranno stappato una bella bottiglia di champagne sulle note dell’ultimo concerto, quello dei meravigliosi LCD Soundsystem, per festeggiare l’ottima riuscita del festival.
Ma andiamo con ordine: La Route Du Rock si tiene in Bretagna, a Saint-Malo (anche se in realtà l’area principale del festival si trova a Le Fort de Saint-Père, una quindicina di chilometri a sud-est rispetto alla graziosa cittadina sulla Manica). Tre giorni di concerti, un programma non particolarmente fitto ma ben assortito, concepito per essere vissuto senza particolari stress: i concerti pomeridiani si tengono tra il Palazzo dei Congressi e la spiaggia (anche se molti di questi ultimi sono stati poi trasferiti nel Palazzo, a causa del vento forte), mentre la sera ci si trasferisce tutti al Fort, dove si alternano – su di un solo palco – sei band.
Il primo giorno l’auditorium è stato scosso soprattutto dalle note dell’ex 16 Horsepower David Eugene Edwards col suo nuovo progetto Woven Hand, capace di esaltare il pubblico che affolla la sala col un rock-blues appassionato, sospeso tra tradizionalismo folk, tentazioni mistiche e vigorose cavalcate elettriche non particolarmente esaltanti, cariche come sono di clichè e di un certo gusto “reazionario” di intendere il rock. Molto meglio quando ad essere protagonisti sono la calda voce di Edwards e la sua sei corde acustica.
Ad inaugurare i concerti al Fort, invece, ci pensa il simpatico Elvis Perkins, con la sua musica agro-dolce, ora più vicina ad un country rock malinconico, ora decisamente più frizzante (complici la curiosa sezione ritmica grancassa/contrabbasso ed una tromba sbarazzina).
A seguire, gli ottimi Herman Düne (che in quanto francesi giocano in casa), capaci di coinvolgere il pubblico con canzoni straripanti di ottime melodie, apparentemente fragili, dalla struttura sonora minimale, con gli interventi dei singoli musicisti dosati con attenzione, ma con inaspettati slanci ritmici.
Il pubblico gradisce. I nuvoloni neri che ci sovrastano un po’ meno, e pensano bene di scaricarci sulla testa tanti, ma davvero tanti litri di pioggia.
In men che non si dica l’area diventa una distesa di fango, per la gioia di scarpe e vestiti. La pioggia tormenterà tutta la giornata, accompagnata da un micidiale freddo umido. Inutile dire che la cosa non abbia turbato minimamente il pubblico francese, perfettamente a suo agio col clima autunnale che quasi ci fa dimenticare di essere a ferragosto.
Perfettamente in sintonia col clima uggioso, il rock tenebroso ed energico dei The National, con i suoi spunti new wave che incontrano la teatralità dei Bad Seeds, si rivela tra le cose più elettrizzanti ascoltate in giornata. Personalmente non mi fanno impazzire su disco, ma dal vivo l’intensità emotiva dei newyorkesi non passa inosservata.
Si vola in Inghilterra (l’accento del frontman Eddie Argos potrebbe spazzare in un nanosecondo qualsiasi dubbio sulla provenienza geografica della band) con gli Art Brut, tra le band più sopravvalutate degli ultimi anni. L’attenzione è tutta per il cantante di cui sopra, più volte accostato a Mark E. Smith dei Fall (bestemmia!) solo perché invece di cantare sbiascica in una forma ibrida di spoken-word i suoi testi riboccanti dubbi esistenziali, amori tormentati e sogni di rock’n’roll. I giovinetti nelle prime file si esaltano. Io sbadiglio e cerco di ripararmi dalla pioggia maledetta.
Ben più eccitante il concerto de The Go! Team(nella prima foto), durante il quale è assolutamente impossibile annoiarsi. La band è in gran forma (a parte il ginocchio acciaccato di Ninja, la cantante, che si dimena ugualmente come se niente fosse), e decide – coraggiosamente – di improntare gran parte della scaletta sui brani del disco in uscita a settembre (“Proof of youth”), che riescono a far ballare e divertire il pubblico al pari dei pezzi – ormai vere e proprie piccole hit – di quel capolavoro di cut ‘n’ paste naive che era “Thunder, Lightning, Strike”. Funk, hip hop, noise rock, atmosfere da telefilm anni ’70, pop super melodico… tutto viene frullato alla velocità della luce, senza che si riescano a distinguere gli ingredienti di un cocktail sonoro coloratissimo e inebriante. Non c’è tempo per la cura dei particolari, per la cura del suono. L’importante è trasmettere il mood giocoso, e riversare sul pubblico un’onda anomala di vibrazioni positive.
Alla band di Brighton segue un cambio di palco lungo ed elaborato. Il live dei Justice, paladini dei clubbers locali (ma non solo, dato l’incredibile successo del duo francese negli ultimi mesi), prevede un’imponente scenografia: avanti al tavolo con le macchine c’è una sorta di enorme synth d’annata “a parete”, puramente decorativo, dov’è incastonata un’enorme croce luminosa, e ai lati due muri di nove enormi amplificatori per chitarra, anche loro rigorosamente spenti.
Tanta attesa viene (non) ripagata da un live a dir poco deludente. Tant’è vero che viene legittimo pensare che tale apparato scenografico non servisse a distogliere l’attenzione dalla materia sonora non particolarmente esaltante. La gente balla, ovviamente, ma è davvero deprimente constatare la prevedibilità delle dinamiche del duo, che si limita ad alternare scontatissime casse in quattro a intermezzi di synth in crescendo. Noiosi e ripetitivi come le montagne russe di un luna park di provincia.
Tutt’altro che deludenti, invece, i Fujiya & Miyagi, ingiustamente posizionati ad inizio serata (parliamo della seconda, il 16 agosto), protagonisti di uno dei più interessanti live-act del festival. Compatti, precisi ma allo stesso tempo caldi e “umani”, gli inglesi impastano con un ottimo senso del groove squadrati ritmi elettronici e caldi bassi funk, inclinazioni new wave e reminiscenze kraut rock. Semplicemente ottimi.
Da dimenticare invece i 120 Days, che partono come una copia super-sbiadita dei loro predecessori, per poi perdersi in una electro-wave senza arte né parte. Nessuno credo si sia strappato i capelli neanche per il live dei seppur onesti The Besnard Lakes, canadesi di Montréal, autori di un rock lento, sofferente e dilatato, che ricorda talvolta i Low, ma senza la stessa ispirazione ed intensità emotiva. Ispirazione ed intensità che sembrano ormai entità sconosciute alla super star della serata, Billy Corgan, e ai suoi improbabili riesumati Smashing Pumpkins, protagonisti di un concerto soporifero, a metà strada tra nostalgia (i pezzi dei bei tempi che furono, che – data l’interpretazione a dir poco scialba – era forse meglio lasciare nel cassetto dei ricordi), ripescaggi di rarità per ammiccare ai fan più fedeli (“Drown”, dalla colonna sonora del cult-movie “Singles”, davvero non me l’aspettavo), promozione dei brani del nuovo disco, ed evitabilissime digressioni psichedeliche che non portano da nessuna parte. L’impressione è quella di trovarsi davanti ad un gruppo svogliato, tenuto assieme per puro caso (della formazione originale troviamo solo il batterista Jimmy Chamberlin e Corgan), buono solo per intrattenere i clienti di qualche pub di provincia.
Per fortuna a riprendere una serata in pericolosissima fase calante ci pensa l’electro-pop-rock saltellante e ultra-vivace dei New Young Pony Club(nella seconda foto), vera e propria fabbrica di super-hit per dancefloors “indie”. Forti di una sezione ritmica impeccabile e di una front-woman coi fiocchi, riescono (finalmente!) a far saltellare un pubblico desideroso di spazzarsi via dalle spalle la coltre di polveroso tedio anni ’90 riversatogli addosso a secchiate dalle Zucche di cui sopra. Freschezza e immediatezza, attitudine dance e massicce dosi di melodie super-catchy. Uno spasso.
Meno convincenti, ma in ogni caso divertenti, le/i Cansei De Ser Sexy chiudono la serata con un’atra bella botta di adrenalina, saltelli e palloncini colorati. Peccato che il suono sia davvero pessimo, e che venga fuori di conseguenza solo l’aspetto più grezzo e punk della band brasiliana,e meno quello più groovy ed ammiccante. In ogni caso è impossibile non lasciarsi coinvolgere dalla follia di Lovefoxxx (nella terza foto), intrattenitrice più che cantante, e dalle sue improponibili tutine colorate.
Assolutamente straordinario, invece, il concerto di Final Fantasy al Palazzo dei congressi nel pomeriggio del terzo ed ultimo giorno di festival. Owen Pallet, da solo sul palco col suo violino, una tastiera (“è nuova, non so ancora bene come funziona…. Quella vecchia è morta qualche giorno fa”) ed un microfono, è capace di fare miracoli, e di tenere col fiato sospeso un pubblico adorante. Owen lavora campionando dal vivo loop di violino che poi provvede a stratificare costruendo intrecci sonori complessi, ma pur sempre legati ad una certa estetica minimalista, dove sono le piccole variazioni ad esser messe in risalto, e dove il suono dello strumento a poco a poco diventa qualcos’altro (percussione profonda, effetto elettronico…). E’ musica fuori dal tempo, fuori dal mondo. Colonna sonora per storie fantastiche. Delicata eppure vibrante, energica, emozionante. Se capita dalle vostre parti non perdetelo per nessuna ragione al mondo.
Tutt’altro sound, ovviamente, viene diffuso dall’impianto del Fort quando i Sonic Youth attaccano “Teenage riot”, primo capitolo della lunga “rivisitazione” di “Daydream Nation”, il disco seminale che la band di New York stasera ripropone per intero. Bel concerto (vabbé, con una band del genere i dubbi erano davvero pochi), anche se onestamente avrei preferito un concerto “normale”, piuttosto che uno spettacolo dal quale è praticamente impossibile aspettarsi sorprese. La band sembra in formissima, comunque. Ranaldo canta a squarciagola come un ragazzino, Thurston Moore e Kim Gordon si divertono, ma senza lasciarsi andare più di tanto (purtroppo) a sevizie e torture agli strumenti. Uno dei migliori dischi rock degli ultimi vent’anni eseguito da una band che dopo tanto tempo ha ancora un bel po’ da insegnare a tanti giovani rockers: bisogna essere degli eterni insoddisfatti per voler ricercare a tutti i costi il pelo nell’uovo. Meglio goderseli.
Con tutte le buone intenzioni, invece, non riesco ad apprezzare il concerto dei francesi Turzi, autori di un concerto a metà strada tra post-rock stantio ed abusato, cavalcate strumentali simil-kraut rock à la Neu!, e un certo malcelato gusto “gotico”, tanto per gradire. Indigesti. Meglio gironzolare tra gli stand di etichette e fanzines, o concedersi una pausa-cena ad uno degli stand “gastronomici”.
Il gran finale è affidato agli LCD Soundsystem, che ci regalano un concerto stratosferico. Le premesse ci sono tutte: James Murphy saluta il pubblico dicendo “faremo un set breve, cercando di fare quanti più pezzi possibile”. Quanto attaccano il basso e la batteria di “Us v Them”, l’impianto suona come non aveva ancora mai suonato, un reggi-tastiera cede mandando in panico la tastierista, ma la band continua imperterrita, e guardandomi attorno non vedo un solo spettatore che non stia ballando.
Murphy dirige le danze come un direttore d’orchestra, preoccupandosi continuamente della buona resa sonora, cantando, urlando, suonando i campanacci e le percussioni. “North America Scum”, “Time to get away” e “Daft Punk is playing at my house”, sono schegge punk-funk impazzite; “Tribulations” e “Losing my edge” seminano il panico: la sezione ritmica della band è un rullo compressore. L’energia, la compattezza del gruppo sono qualcosa di fisico e palpabile. La splendida “All my friends” ci fa riprendere fiato. La chiusura con “New York I love you” è quasi un vezzo da rock star. Una sorta di buonanotte a tutto il pubblico del festival. Un’uscita in grande stile; la conclusione più inattesa di un live impressionante.
Il pubblico lentamente lascia per l’ultima volta il Fort, con le gambe stanche e lo sguardo felice rivolto ad un cielo finalmente stellato e senza nubi…
Autore: Daniele Lama daniele@freakout-online.com | foto di: Daniele Lama (grazie a Valentina Guerrera)
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