Pomigliano Jazz è vivo e lotta insieme a noi, solo che fa un po’ di fatica.
Al cambiamento di segno politico dell’amministrazione comunale, in molti malpensanti avevamo pensato ad una politica culturale da spoil system all’italiana, che avrebbe ostacolato il progetto del festival, costruito sotto altra parrocchia. Quest’aria, alla villa comunale di Pomigliano, comunque sempre gremita di un pubblico estremamente eterogeneo e festante, un po’ si respirava: programma ridotto rispetto ai sontuosi anni passati (per fortuna in durata della manifestazione e non in qualità), orari di chiusura penalizzanti, ed un segnale su tutti: il cambiamento radicale del visual, dai delicati segni rossi fluttuanti al gattone baffuto ultra kitsch che suona il sax, degno della miglior “super classifica show”.
Più nello specifico, il programma presenta una serie di spunti interessanti e di vere e proprie occasioni appetitose per le orecchie più raffinate.
Il primo giorno è senz’altro contrassegnato da un programma lievemente skizofrenico, che cerca di tenere insieme il piano solo, l’impro-noise ed il dj set.
Senza dubbio è il giorno di Brad Mehldau, pianista dalla tecnica sopraffina giunto agli onori delle cronache per la rilettura in chiave acustica del patrimonio dei Radiohead. Dallo stile sempre formalmente impeccabile, ultra lirico, il suo set è un’esperienza da week and post-moderno: all’interno di una struttura modale e scalare blindata il nostro dissolve gocce di cultura popular (spicca la cover di Protection dei Massive Attack ed un richiamo a Jeff Buckley) col rischio di appiattire tutte queste matrici sonore così ricche e variegate alla stessa stregua di minimal raffinato per pianoforte. L’iper citazionismo di Mehldau, unito alle bizze a là Keith Jarrett (niente video niente foto, sguardi astiosi e gesti apotropaici rivolti agli spettatori) rendono il set un’esperienza di paradossale isolazionismo: parte la cover di Buckley e sembra “Night in Tunisia”, parte “Night in Tunisia” e sembra la cover dei Radiohead… da urlo.
La serata prosegue con un’esperienza di improvvisazione davvero vitale e ricca di suggestione regalataci dal progetto “improWYSIWYG Linguaggi Fratti”, sestetto multietnico che ha dato vita ad un set ostico ma ricco di cose da dire, fatto di noise e droni elettronici, spezzati dal livore vocale di Giovanni Falzone, che si mostra anche ottimo “manipolatore” di strumenti a fiato più canonici. L’unico peccato è che il set già ostico sia stato appesantito da un live visual vecchio, che non riusciva ad aggiungere alcuna chiave di lettura alla composizione sonora.
La serata chiude col set elettronco pulito e dal sapore lounge del Martux_group, progetto ideato da Maurizio Martusciello.
Il secondo giorno è, come da qualche anno, dedicato all’Orchestra Napoletana di Jazz, ricca come sempre di ospiti e di assi nella manica.
Prima però c’è tempo per un bel set di delicata introspezione eseguito del quartetto svedese di Jonas Kullhammar e molto apprezzato dal pubblico.
L’orchestra Napoletana di Jazz diretta da Mario Raia invece è come una ricetta ipocalorica con troppi ingredienti, non sempre mescolati a dovere, tra questi ce n’è uno davvero di alta cucina: il grande Arto Lindsay, che, accompagnato dall’orchestra e dal fido percussionista Marivaldo, ci regala dei momenti sublimi di levigata finezza tratti dal repertorio della tradizione napoletana così come da quella carioca. Così gradevoli non sono invece le intersezioni elettroniche e vocali, che male si innestano sulla solida struttura orchestrale dell’ONJ.
Ma domenica sera il festival si scrolla di dosso ogni incongruenza, prima con il set equilibrato e romantico del Trio di Salerno, composto da Sandro Deidda, Guglielmo Guglielmi e Aldo Vigorito, che presenta in anteprima nazionale il loro secondo lavoro, “Luna Nuova”, pubblicato da Itinera, l’etichetta nata da Pomigliano Jazz, poi con uno delle più forti ed eclettiche personalità del jazz di sempre, quell’ Archie Shepp (nella foto) che, al fianco di Bill Dixon, Don Cherry, John Tchicai, Cecil Taylor e John Coltrane (partecipò da protagonista alle incisioni nientemeno che di “A Love Supreme”) ha sviluppato un discorso sonoro di rottura e di impegno per la rivendicazione dei diritti del popolo afroamericano, inglobando temi, forme e stili tratti dalle più grandi voci del jazz: da Ellington a Monk passando per Mingus, da Charlie Parker fino a Horace Silver e Sun Ra, una sorta di esponente ante litteram del free jazz.
Con un curriculum del genere sarebbe facile pensare al solito amarcord del grande maestro un po’ rincoglionito, invece Shepp è in grande forma, accompagnato da un solido trio e supportato dal clarinettista francese Denis Colin e dal sassofonista partenopeo Marco Zurzolo. La formazione si prodiga in un set che oscilla tra le atmosfere vibranti del jazz newyorchese e la carnalità del blues più profondo, con un’incursione gradevole ed inaspettata nel mondo nel folk partenopeo. Shepp trasuda onestà ed autorevolezza, è in grado di non strafare e di trasmettere un energia immensa, questo ci pare un buon punto di partenza per le edizioni future.
Autore: Pasquale Napolitano
www.pomiglianojazz.com