“Non riesco a crederci, è un sogno che diventa realtà”, dice, visibilmente emozionato ma anche genuinamente divertito, Martin Horntveth, batterista dei Jaga Jazzist, guardando l’orchestra schierata alla sua sinistra, sull’enorme palco nella spettacolare sala da concerti del Barbican Centre.
E’ una serata speciale, per il super-gruppo norvegese: per la prima volta i nove di Tonsberg (paesino alle porte di Oslo) hanno l’occasione di esibirsi con un’orchestra al completo (in tutto sono trentacinque i musicisti sul palco!), e sembrano essi stessi i primi a restare sorpresi dalla magnificenza sonora che ne viene fuori!
Che la serata fosse tra quelle da ricordare a lungo, però, s’era capito almeno un’ora prima: ad aprire il concerto dei Jaga c’è Lars Horntveth (che del gruppo norvegese è il fulcro creativo, ma che negli ultimi anni è stato protagonista di bellissimi dischi da solista), che, “approfittando” della presenza dell’orchestra, ha colto l’occasione di eseguire per la prima volta dal vivo in Gran Bretagna il suo lavoro “Kaleidoscopic” (pubblicato nel 2008), un unico brano di circa trentasei minuti, che già nella sua versione su disco ospitava un’orchestra (in quel caso l’orchestra nazionale della Lettonia, diretta dal maestro norvegese Terje Mikkelsen).
Un’opera dall’enorme fascino, in cui Lars mescola con estro ed eleganza atmosfere e registri, suoni e generi diversi: dagli scorci “cinematici” che evocano le colonne sonore di Bernard Hermann ai fraseggi jazz, dai languidi passaggi post rock che ricordano il Jim O’ Rourke di “Eureka” alle citazioni del minimalismo classico à la Reich arricchite da leggerisme sfumature elettroniche.
E’ il lavoro di un musicista incredibilmente talentuoso (che sul palco si alterna tra tastiere, sintetizzatori, chitarre, slide guitar, sax, clarinetto), che “gioca” con le incredibili potenzialità offerte da un’orchestra, senza incappare nella pretenziosità tipica degli ambienti “classici” (Lars è un auto-didatta, che non ha mai frequentato alcuna accademia), ma con una sensibilità tipicamente post-moderna, capace cioè di “frullare” input apparentemente eterogenei, di sfumare i confini tra musica “alta” e musica “popolare”, per creare qualcosa di affascinante ed apprezzabile a livello universale.
Dopo un breve intervallo, le atmosfere rarefatte di “Kaleidoscopic” lasciano spazio all’impeto travolgente dei Jaga Jazzist al completo. Ed è gioia per gli occhi e per le orecchie. I nove Jaga Jazzist si alternano tra fiati, percussioni, macchine elettroniche e “tradizionale” strumentazione “rock”. Alle loro spalle, la Britten Sinfonia “espande”, arricchisce, amplifica il già ricchissimo suono dell’ensemble norvegese. Un concerto di rara energia, un percorso sonoro in cui i chiaroscuri tipici della musica dei Jaga si arricchiscono di tensione drammatica (la versione di “Oslo Skyline” è da pelle d’oca) e in cui la ricchezza cromatica e la potenza ritmica (“One-Armed Bandit”) si fanno ancora più coinvolgenti. L’orchestra si integra alla perfezione col flusso sonoro della band, non è mai invadente, né rischia di soffocare i momenti più intimi e delicati.
Allarga gli orizzonti dei brani originariamente più elettronici (“Kitty Wu”) e rende ancor più convincenti le ambizioni sinfoniche già insite in brani come “Toccata”. Dal palco si riversa sulla platea un fiume in piena di suoni che sfuggono ad ogni definizione: c’è la fisicità del (post) rock più chitarristico, ma anche l’afro-jazz di Mulatu Astatke, il free jazz, il minimalismo, l’elettronica, la musica ambient, i “contorsionismi” progressive, un continuo alternarsi tra rarefazione sonora ed improvvisi slanci dallo straboccante gusto barocco.
La standing ovation alla fine del concerto è stra-meritata (con la band richiamata per due volte sul palco per dei bis senza l’orchestra).
Più di due ore di musica di estrema bellezza. Non abbastanza “cool”, purtroppo, da far registrare il tutto-esaurito, che qui a Londra è all’ordine del giorno per concerti ben meno “sostanziosi”…
Autore: Daniele Lama
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