Atmosfere dilatate, riverberi, tappeti sonori, onirismo malinconico, inquietudini paesaggistiche: i paladini del post-rock italico tornano sulla scena. Sono i Giardini di Mirò, alle prese con il loro quinto album in studio: “Good luck”.
Volendo eludere questo cappello canonico, classico, e introduttivo, e volendo passare alle considerazioni personali, io i Giardini di Mirò, personalmente, non ero mai riuscito a farmeli “scendere”. Fin dai primi tempi, in cui questa band se ne usciva con album strumentali di ridondanza asfissiante che non sono mai riuscito a concepire, quando il mio coinquilino li sparava a palla nel nostro già di per sé asfissiante e caldo appartamento. Dal vivo, poi, li avevo trovati soporiferi.
E allora, dice, “perché ne scrivi una recensione?”. Semplice: perché “Good luck” è riuscito a farmeli rivalutare. In positivo, naturalmente.
Sarà che i sei (o meglio, sette, visto che in alcuni brani subentra alla batteria il nuovo acquisto della band, Andrea Mancin) ora cantano (fra le voci di Jukka Reverberi e Corrado Nuccini c’è spazio per un solo brano strumentale, la title track). Sarà che i Giardini di Mirò sono maturati, sarà che ho cambiato visione io, sta di fatto che “Good luck” è un album proprio fico, che sa unire atmosfere sonore calde e sognanti (o da incubo), suonate come quello che qualcuno chiama “Dio” comanda e prodotte altrettanto bene (nota di plauso a Francesco Donadello e Andrea Sologni), a una verve compositiva che trova nelle melodie vocali, ora, la propria forza.
La struttura dei brani è tutto fuorché scontata (anche se nulla di non già ascoltato), forti di evoluzioni in crescendo che riescono a donare agli 8 episodi dell’album, di secondo in secondo, nuova linfa da cui attingere.
“Spurious love” (cantata insieme ad Angela Baraldi e con Stefano Pilia alla chitarra) è rappresentativa di ciò: atmosfere decadenti e rarefatte da cantautorato maledetto migrano man mano verso territori più tesi sul finale che sfocia in una lunga coda dove emerge l’anima post originaria della band, ritmata, a fare da assillante mantra.
Se “Spurious love” viene anticipata dalla tesa ballad “Memories”, a legarsi all’incipit del secondo brano, “Ride” prosegue il discorso come a fare da filo conduttore con ritmi più sorretti, rock, new wave, senza mai abbandonare la malinconia marchio di fabbrica della band ma tramutandola in motivo per potervi reagire con la propria carica (bridge e ritornello del brano da manuale, dove i Giardini di Mirò danno il meglio in veste di arrangiatori, fra figurazioni ritmiche ricercate e ottime doppie voci).
Con “There is a place” torniamo alle atmosfere decadenti iniziali, ma la voce di Sara Lov dei Devics ci lascia intravedere uno spiraglio di luce.
La title track, strumentale, ci riporta indietro allo stile classico dei Giardini di Mirò mentre “Rome” (di nuovo con Angela Baraldi) ci riporta alle tensioni di “Memories”, come a riprendere lo stesso discorso nato in apertura dell’album. Ritorna anche la new-wave ritmata con “Time on time” per chiudere il tutto con la deflagrante malinconia distruttiva di “Flat heart society”.
Otto piccoli gioiellini con una marcata intenzionalità pop, nell’accezione positiva del termine; otto brani che ti si fissano in testa e ti ci ritornano quando meno te lo aspetti.
Difficile aggiungere altro a quanto detto, soprattutto considerando che i Giardini di Mirò per me sono stati “una (piacevolissima) scoperta”. “Good luck” è un album che una volta ascoltato difficilmente può lasciare indifferenti legandosi ai recettori dell’ascoltatore come una droga pretendendo di essere riascoltato e ancora riascoltato.
Sarà un piacere poterli ri-ascoltare dal vivo il 16 Luglio al Neapolis Festival per suggellare questa riappacificazione fra il mio gusto in fatto di musica e i Giardini di Mirò.
Autore: Giuseppe Galato
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