C’è tutto quel che ci deve essere e che ci si aspetta da un evento del genere, stasera al C.S. La Strada, sebbene la parola festival si associ a ben altre atmosfere. Perché lo Stoned Hand of Doom, giunto alla sua seconda edizione, vuole essere a tutti gli effetti il doom festival italiano. La definizione Doom oggi non riesce a contenere tutte le correnti musicali più o meno sotterranee che invece vorrebbe rappresentare e se una volta era facile identificare con il termine tutto ciò che scaturiva dalle gesta di Black Sabbath e Saint Vitus, Pentagram e Candlemass, cioè il lato metal della faccenda, oggi le forte contaminazioni del genere con la psichedelia e con l’acid rock (stoner), con alcune forme deviate e rallentate di hardcore (sludge) ed infine anche con alcune pulsioni sperimentali (drone) ne fanno una faccenda molto più complessa ed intrigante.
Piccolo e oscuro, il Centro Sociale della Garbatella è la perfetta alcova di dannazione per questa serata invece dannatamente divertente. Entriamo intorno alle 20.00 con buona pace di tutti i gruppi minori intervenuti prima, fin dalle 16.00. Stanno suonando i Mydriasi, una delle più belle realtà dell’underground italiano. Il trio di Varese, sicuramente ispirato dai classici del genere con tutte le relative conseguenze ossianiche che le loro note diffondono, son riusciti a innestare nel loro doom una sconvoltissima psichedelia cosmica debitrice con Pink Floyd, Hawkwind e perfino a qualche scheggia kraut. Lunghe derive acide dunque ma sempre legate da trame maligne e ossessive sottolineate dagli sguardi del teatrale cantante e bassista Convulsion e dal chitarrismo ipnotico e fortemente heavy di Jon Guanera che con le trecce ricorda Wino Weinrich. Poi i bresciani All Soul’s Day che rappresentano il lato più epic e meno amato dal sottoscritto. Si riconosce la loro devozione e anche bravura nella riproposizione di una certa tradizione metal, quella appunto epica, legata anche ad aperture classiche, ma le voci in falsetto ostinato come quella di Emiliano Lanzoni proprio non riesco a mandarle giù. Tocca ora ai capitolini Doomraiser tra i più attesi della serata. E mai definizione fu pù azzeccata di quella che loro si attribuiscono: heavy drunken doom. In effetti, al di là della evidente propensione alcoolica culminante in lunghissime appendici strumentali, i Doomraiser piacciono proprio perché riescono a mettere d’accordo le varie anime presenti partendo da un canovaccio abbastanza tipico di suoni ed accordi ferali e tetragoni, ma spostando il tiro verso forme ora quasi Kyussiane ora mostruosamente growlesche (grazie anche al versatile singer Cynar che riesce a coprire un ampio spettro vocale) e trasfigurando alla fine il tutto in jam acide pur sempre restando nel giardino di casa loro. E’ la volta dei più freakettoni dell’intero lotto, gli Obiat da Londra (ma polacchi). Qui più che in altre bands della serata è davvero il caso di parlare di psychedelic-doom. Riffs heavy, voce ipnotica, un gilet che neanche Tony Iommi avrebbe mai accettato di indossare e una cover di Gardenia dei Kyuss che ha decisamente smosso tutti: un bel regalo che tutti segretamente prima o poi si aspettavano, cioè una cover di uno dei gruppi più amati e rispettati dagli acid-freaks presenti, vogliosi di headbanging. E si continua con gli ungheresi Wall of Sleep, tra i big della serata. Molto più legati al metal, niente scena ma tanta sostanza e molto apprezzati per la loro capacità tecnica e compositiva, melodici, voce pulita e potente. Molti i brani dal loro ultimo “Sun Faced Apostles” tra cui spiccano per intensità “The Time Of The Goblins” e “The River” e cover finale dei Sabbath. La festa si conclude intorno alle 2.00 con i Malasangre e vedendoli e sentendoli capisco perché li han messi alla fine, quando normalmente ci sarebbero i big. I Malasangre si discostano totalmente da tutto ciò che abbiamo sentito finora, andando ad abbracciare lo sludge malato degli Eyehategod e di tutta quella parte oscura della galassia frantumata del post-core che nella lentezza estenuante e nello sgretolarsi della psiche e dei suoni trova il terreno fertile per la sua visione nichilista. Come mettere insieme Neurosis, Soulpreacher e Sons of Otis, lasciarli impazzire, imbottirli di roipnol e poi dargli gli strumenti. Molto impegnativo dunque il finale dal punto di vista musicale, eppure ironico e provocatorio nell’atteggiamento di putrida gloria del cantante con occhialoni da sole e canottiera da nerd (in netto contrasto con tutti i long-haired doomsters in nero visti sinora) che sembrava preso da un delirio di onnipotenza patologico tra Boyd Rice e Colonnello Kurz. All’anno prossimo, dunque, sperando che ci sia un Chapter 3 e un bel pò di gente in più. Dooooooommmmmmm!!!!!
Autore: A.Giulio Magliulo
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