Reggio Emilia rossa. La storia si ripete, anche se i CCCP, e la stessa entità politico-statale di cui Ferretti e soci avevano fotocopiato il nome, non esistono più. Il punto è che la tendenza politica di certe zone, dovremmo saperlo, non cambia tanto facilmente – e ben venga vista l’alternativa – se alla base resta una certo modo civile di intendere la vita e le relazioni, al punto che ancora sopravvivono vestigia ante-1989: la statua di Lenin a Cavriago, innanzitutto, più tutta la toponomastica della zona.
Tutta materia in cui il debut album di questo terzetto nato in quattro e quattr’otto affonda a piene mani senza timore di connotarsi come opera smaccatamente “di parte”, quale effettivamente è, e riprodotta tanto direttamente, sotto forma di “cronaca” e descrizione di manifestazioni di “comunisticità” (o dei successivi modelli capitalistici – vedi la Praga di ‘Tatranky’ –, puntualmente biasimati) quanto sotto forma di “sfondo” su cui si dipanano le storie/memorie/racconti personali dei tre Offlaga – spesso resoconti di giovanile militanza. Una dimensione che va oltre il semplice micro-contesto personale, e che si configura come involucro in cui tutto il mondo è avvolto e lente deformante che ne distorce la prospettiva in modalità “vagamente allucinata”, ieri Istanbul e aspirazioni a una Turchia rossa vestita di “islam punk”, oggi appunto Praga e l’utopia di un sovietico ripristino. Quasi uno sfoggio di faziosità e minoritario populismo, forse fuori tempo massimo, ma sempre in tempo per centri sociali e dintorni.
La speranza è che si badi alla musica più che al pur importante – per i diretti interessati – dato testuale. Anche perché si tratta di materia sonora per la quale il belpaese è terra ancora pressochè vergine, frutto di paccottiglia analogica (un moog, un casiotone a prendere anche le parti della batteria, oltre ai più canonici chitarra e basso) da “pochi rubli” (ipsi dixerunt): post-rock con gelide inclinazioni punk-wave, glitch-electro(-clash) altrettanto ipotermica, hip hop decompresso, qualche esuberante apertura disco-punk. Le tipiche “basine” da casio messe al servizio non di un “terrorismo” sonico ma del “narrato” – vero e proprio, non rap – del vocalist Max Collini, veterano non di musica ma di arringhe in sezioni di partito, che devia i brani dall’asse melodico delle basi in modo personale, o comunque tale da prevenire facili associazioni stilistiche. Una sporgenza sul piatto quadro del nostro panorama, quindi, pur se ancora traballante.
Autore: Roberto Villani