I Kraftwerk a Berlino. Non c’è neanche bisogno del punto esclamativo.
L’emblema in musica della serialità, della disumanizzazione, della cibernetica, della cultura pop contemporanea europea. Edipo insopprimibile per le nuove generazioni di artisti elettronici. Profeti della musica industriale, l’unica, con giudizio amorale, possibile oggi, col suo potenziale di uguaglianza e ripetitività; colorata e plastificata, come pannolini e sofficini.
Come Andy Warhol ed i Velvet Underground per la società dello spettacolo, i quattro stempiati signori di mezza età fermi davanti ai propri laptop che quasi non cantano e quasi non suonano, con capacità di sintesi figlia della Bauhaus e dell’ Art und kraft, del razionalismo e del suprematismo, hanno triturato tutti i miti ed i riti dell’era industriale, rappresentandone l’immaginario collettivo, dai progressi della tecnologia: “Neon Lights” “Die Roboter” “Computer Welt” al suo crepuscolo: “Man Machine” “Electric Roulette” “Radio Activitat”. Setacciando tutto col loro personalissimo filtro critico, non lesinando una provvidenziale dose di distacco ed ironia.
Sempre fedeli a loro stessi, talvolta troppo, come nel loro ultimo disco, “Tour de France”, troppo simile ad episodi precedenti della loro discografia ed oggi in parte inattuali.
Gli inventori della musica elettronica, di certo i primi, per alcuni anche i migliori. Non ho elementi per giudicare. Ma senza tema si può affermare che i Kraftwerk sono ancora oggi il gruppo con
l’ approccio all’elettronica, anche ideologico, più lucido e consapevole.
Più che un concreto un party, più che un party un funerale.
E’ palese la scelta di evitare ogni approccio contemplativo alla musica; in questo senso va la massima importanza dedicata all’ aspetto visivo, con l’impiego di costumi ormai leggendari e video curatissimi, a base di immagini di sintesi ad accompagnare ogni brano. Anche l’orario (da mezzanotte alle 2 e mezza) contribuisce a dare una collocazione all’ evento più affine ad una grande festa multimediale che ad un concerto. Si diceva di un funerale, tant’è. Perché ogni data dei Kraftwerk è in primo luogo una commemorazione del gruppo che fu. I quattro uomini sono vestiti come trenta anni fa, i brani non cambiano di una virgola, e potrebbero benissimo non essere eseguiti materialmente da nessuno, i musicisti non ci sono mai stati nella musica dei Kraftwerk, potrebbero benissimo non esserci neanche il resto, portando a termine una completa smaterializzazione, da martiri della cultura digitale.
Fosse qualsiasi altro gruppo si tratterebbe di un patetico atteggiamento da vecchia gloria ma nel loro caso è la scelta eticamente ed esteticamente più coerente, forse l’ unica possibile, in una coazione a ripetere che potrebbe vedere lo stesso concerto eseguito tra 10, 20, 100 anni, con la credibilità dell’ unico gruppo che è riuscito ad essere allo stesso tempo tecnologico e retrò, lasciando tutto uguale, seriale, come uguali e seriali sono i sofficini ed i pannolini, come la Campbell Soup warholiana.
Infatti il culmine, il punto di non ritorno è rappresentato da “Die Roboter”, momento in cui tutte le loro teorie si avverano, si chiude il sipario ed un momento dopo al posto di quattro esseri umani appaiono quattro cyborg, dalle fattezze dei referenti umani, con stesse movenze e stesso ruolo. Cyborg ed avatar. Maschera e volto. Corto circuito tra uomo e computer.
Biglietti esauriti due mesi prima, attese altissime, ampiamente corrisposte.
Autore: PasQuale Napolitano