Quando si usa l’aggettivo “deludente” a proposito degli U2, si possono dire cose molto diverse con la stessa parola, ed è tempo di fare chiarezza.
La prima volta che si è parlato di delusione per gli U2 è stato del tutto a sproposito per Rattle and Hum, disco del 1989 che pagava soltanto il fatto di uscire dopo The Joshua Tree. Poi, si è parlato ancora di delusione, sempre a sproposito, nove anni dopo in merito alla loro (presunta) svolta elettronica in Pop: era il 1997, Pop fu stroncato da molta critica e soprattutto i fan della prima ora lo disdegnarono per colpa di una canzone equivocata, Discotheque. Invece Pop era e rimane uno dei dischi più coraggiosi, innovativi, taglienti e duri dell’intera discografia della band, che copre oggi quasi quarant’anni.
Dunque, in verità, fino a qui, nessuna delusione.
Si è poi spesso parlato di delusione a proposito di Bono, come uomo e come politico, viste le non poche contraddizioni fra i suoi messaggi, nelle canzoni e fuori, e il suo stile di vita e certe scelte (la foto con Bush jr, la sua residenza fuori Irlanda per fuga fiscale, ecc.). Di questo, si può e si deve dire poco. Il valore di un messaggio, non solo musicale ma anche politico, può essere separato dalle qualità umane dell’uomo che lo propone. Bono non ha mai detto di prendere se stesso come esempio.
Deludenti, invece, sono davvero tutti i dischi degli U2 dal 2001 in poi (escluso il primo di questa serie, All that You can leave Behind), e cioè proprio quei dischi per i quali Larry Mullen aveva detto al tempo: “finalmente si torna a suonare”.
Poiché ormai, episodi singoli a parte, (c’è sempre almeno una bellissima canzone in ogni disco dal 2001 a oggi) la cosa si fa strutturale e non è un incidente di percorso (stiamo parlando di 5 album in 16 anni), bisogna chiamarla per quello che è, e cioè non solo “delusione”, ma “impietosa fine di una band”.
Gli U2 oggi suonano come i Coldplay da Viva la Vida in poi, ovvero come autori di canzonette acchiappa-teenager. Che cosa è successo?
E’ successo che Bono non ha più la voce: quella stessa voce che era la più bella, intensa ed emozionante voce del rock, ad almeno tre scale di estensione (ascoltate Bad e If You Wear That Velvet Dress o Heartland) riesce a cantare solo ritornelli quasi esasperanti come in You’re the Best Thing about Me, il primo poco meno che irritante singolo del nuovo disco, Songs of Experience, virtuale continuazione di Songs of Innocence di tre anni fa.
Poi c’è Larry Mullen jr, un tempo uno dei batteristi più interessanti del panorama, oggi capace solo degli stessi identici ritmi, che suona quasi come se avesse una paresi. E infine the Edge, che mette i suoi riff per cui è famoso in tutto il mondo ormai a ripetizione nei pezzi quasi a voler richiamare come un esorcismo i tempi andati, ma non è un riff a fare la creatività di un pezzo, e in fondo andava meglio quando negli anni ’90 quei riff, quel sound Edge, era scomparso per farsi sostituire da un’elettronica sperimentale e nuovi arditi suoni (ascoltate Lemon o Numb o Do You Feel Loved). Adam Clayton è l’unico che in questi anni sembra cresciuto, forse perché era il meno dotato della band, forse perché viene fuori a contrasto, chissà.
Se questo è il quadro cosa dire ancora di Songs of Experience? Almeno il precedente, Songs of Innocence, aveva un pregio, ed era quello di raccontare, appunto, con innocenza, essendo l’album più intimista degli U2. La canzone era così così ma almeno in Iris Bono racconta della mamma mai conosciuta in una maniera commovente. O parla degli scontri in Irlanda in una prospettiva assolutamente nuova, quella dei ricordi di un bambino, in Cedarwood Road o Raised by Wolves. Qui cosa troviamo?
Prodotto da Jacknife Lee e Ryan Tedder con Steve Lillywhite, Andy Barlow e Jolyon Thomas, si presenta con l’immagine di copertina realizzata dal solito Anton Corbijn che ritrae gli attuali figli adolescenti degli U2, Eli Hewson (figlio di Bono) e Sian Evans (figlia di The Edge), vestiti come all’epoca era il ragazzino modello per Boy e War. Non è un caso. L’album vuole davvero essere il contraltare di Songs of Innocence. Se in quello c’era autobiografia, ricordi di infanzia, innocenza, qui c’è Bono che scrive lettere, anche ai figli della band, come se fosse morto (un consiglio che gli è stato esplicitamente dato per la scrittura di questi nuovi testi). C’è Bono che riflette anche su molti errori della sua carriera e della sua vita (The Showman, You’re the Best Thing About Me).
Ma, nonostante queste buone e ispirate intenzioni, e nonostante questi produttori, Lillywhite per primo, (lo stesso produttore dei primi leggendari dischi, Boy, October, War), l’esperienza dal punto di vista musicale almeno non si vede, semmai una sterile ripetizione di suoni già conosciuti: è vero, hanno avuto almeno la dignità di non inaugurare il disco con singoli-presa-in giro come all’epoca Vertigo o l’orribile Get on Your Boots (che per fortuna nessuno ricorda come canzone degli U2, ma questo trenntennale fan che vi scrive qui, purtroppo sì), ma c’è molto poco altro di cui si può dire in positivo di Your’re the Best Thing.
Qualcosa di meglio, decisamente meglio, si sente in Blackout, che finalmente ricorda un suono davvero rock, oppure in The Little Things that You Give Away, una ballata lenta che si chiude con un solito riff alla Edge, che pur non travalicando il pop è intensa, sincera, e dotata di un bel testo puro, mentre l’altro singolo noto prima dell’uscita del disco, Get Out of Your Own Way, è un pezzo intrigante, che ha la base ariosa e epica di Beautiful Day (quindi, bene), ma nel contempo è troppo uguale, quasi un auto-plagio, o un rigirare la frittata musicale, di Beautiful Day (quindi, male).
Ricordiamoci che queste canzoni sono venute fuori negli stessi tempi di Songs of Innocence, vale a dire il disco musicalmente peggiore fra i cinque post-duemila, dove la svolta poppeggiante e la fine della voce di Bono si sono sentiti come un macigno (il disco precedente, No Line on the Horizon, era ancora salvabile e contiene le cose migliori dal 2004 ad oggi). E infatti American Soul è in pratica un outtake di Vulcano, (con un testo politico contro Trump che oramai in bocca al Bono attuale suona falso e irritante), Summer of Love vorrebbe proseguire il discorso di California, e addirittura 13 (there is a Light) cita strofe intere, praticamente è un riciclaggio, di Song for Someone. Ma insomma, dov’è la novità?
Proviamoci: ascoltata tutto di fila, la sequenza che va da Lights of Home a American Soul non si può negare sia intrigante, e nell’insieme acquisisce anche una certa brillantezza pop che mancava ai singoli del precedente disco. Le cose migliori si trovano comunque nei pezzi lontani dal clamore mediatico, nel ritmo di Blackout, nell’assolo e nel coro gospel per esempio di Lights of Home, o nella strofa cantata con limpidezza di The Showman, e Red Flag Day è un pezzo a suo modo sorprendente: ricorda nella sua semplicità qualche atmosfera dei pezzi non da grido di album come October e War. Praticamente inascoltabili invece Landlady e Love is Bigger Than Anything in Its Way, quest’ultima anche insopportabilmente retorica.
Qualcosa di migliore del disco precedente insomma c’è, ma si tratta sempre di qualcosa di una band che non ha nulla a che vedere con quegli U2 che sono stati senza dubbio la più significativa band rock degli anni ’80 e ’90. E’ un luogo comune, ormai, ma è vero: Gli U2 dal 2001 sono un’altra band.
E forse a questo punto andrebbero giudicati veramente come se fossero un’altra band, e non tenendo presente il loro mostruoso retaggio di pezzi come Pride, Bad, New Year’s Day, Sunday Bloody Sunday, Gloria, dell’intero disco The Joshua Tree, e di tutto quel capolavoro che va da Achtung Baby a Pop (includendo, perché no, anche Zooropa e l’album sperimentale dei Passengers).
Forse, così considerati, alla stregua cioè di band rock-pop come i Coldplay attuali e gli One Republic, della loro produzione post-duemila si potrebbe salvare un po’ di cose, e sicuramente una metà delle canzoni di questo disco. E, più di ogni altra cosa, gli inediti e lati B prodotti dal 2001 a questa parte, che quasi immancabilmente superano in bellezza le canzoni dei dischi (un solo esempio: Mercy, del 2004), come anche in questo caso Book of Your Heart, presente solo nella versione deluxe.
Ma come si fa a dimenticare, soprattutto di fronte a questi dischi post-duemila, che gli U2 di oggi erano una volta gli U2 di Where the Streets Have no Name? E ci hanno anche messo un bell’impegno, Bono e compagni, a ricordarcelo, visto che hanno voluto un tour mondiale per il trentennale di The Joshua Tree, che non ha fatto altro che far fare ai fan i conti con le differenze fra le track di allora e come le suonano oggi.
autore: Francesco Postiglione
TRACKLIST
•Love Is All We Have Left
•Lights of Home
•You’re The Best Thing About Me
•Get out of Your Own Way
•American Soul
•Summer of love
•Red Flag Day
•The Showman (Little More Better)
•The Little Things That Give You Away
•Landlady
•The Blackout
•Love Is Bigger Than Anything in Its Way
•13 (There is a Light)