Il 2023 è stato un anno intenso per Brian Eno; sul “piatto” la pubblicazione di vecchi e (parzialmente) nuovi lavori, partendo da “Top Boy” (musiche realizzate per la serie Netflix partita nel 2011), passando per “Forever Voiceless Edition”, la versione senza voce di “Foreverandevernomore”, arrivando a “Secret Life” (a firma congiunta Fred Again & Brian Eno).
È stata, anche, prevista la stampa in vinile di un “cofanetto” intitolato “The Complete Obscure Records Collection” (pubblicato da dialogo) contenente tutte le dieci storiche registrazioni pubblicate dall’etichetta creata da Brian Eno, l’Obscure Records, attiva dal 1975 al 1978, che hanno visto impegnati, oltre allo stesso Eno con “Discreet Music” del 1975, i musicisti: Gavin Bryars con “The Sinking of the Titanic” del 1975 (con la partecipazione di Derek Bailey alla chitarra e Michael Nyman all’organo); Christopher Hobbs, John Adams e Gavin Bryars con “Ensemble Pieces” del 1975; David Toop e Max Eastley con “New and Rediscovered Musical Instruments” del 1975; Jan Steele e John Cage con “Voices and Instruments” del 1976 (con la partecipazione di Robert Wyatt); Michael Nyman con “Decay Music” del 1976; alcuni membri della Penguin Café Orchestra con “Music from the Penguin Café” del 1976; John White e Gavin Bryars con “Machine Music” del 1978; Harold Budd con “The Pavilion of Dreams” del 1978, oltre all’opera Irma di Tom Phillips, con musica di Gavin Bryars e libretto di Fred Orton pubblicata anch’essa nel 1978.
Eno è, poi, salito (nuovamente) agli onori della cronaca per essere stato insignito da La Biennale di Venezia del Leone d’Oro alla carriera: “Il lavoro compositivo di Brian Eno – si legge nella motivazione di Lucia Ronchetti – è dagli esordi concepito quale processo generativo che evolve secondo una dimensione temporale potenzialmente infinita, anticipando molte delle tendenze compositive attuali legate al suono digitale. Lo studio di registrazione concepito come meta-strumento compositivo, regno di elaborazione, moltiplicazione e montaggio di frammenti sonori registrati, simulacri acustici, oggetti sonori autonomi, ha permesso a Brian Eno di creare spazi elettronici immersivi che si trasformano e permeano la realtà acustica nella quale siamo immersi, modulandola secondo drammaturgie sempre cangianti. Concependo la musica registrata come un immenso archivio di frammenti infinitesimali di suoni, infinita palette acustica disponibile per i compositori, mise en abyme della storia musicale, la musica generativa e ambientale è pensata da Brian Eno come la creazione concettuale di un seme, capace di svilupparsi, piuttosto che come un albero già progettato in tutti i dettagli, invocando la nascita di un paradigma compositivo ispirato alla biologia piuttosto che all’architettura, capace di auto-evolvere e generare costantemente nuovi paesaggi sonori” – (dal sito ufficiale della La Biennale di Venezia).
https://www.brian-eno.net/
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Si apprende on line che Eno, nel suo manifesto “Music for Non-Musicians”, sin dagli albori della sua attività, tracci con chiarezza le coordinate sulle quali la sua “ricerca musicale” andrà a collocarsi; Eno, infatti, teorizza la figura del “non-musicista”, privo di competenze tecniche, ma dotato di “creatività” artistica. In sostanza la realizzazione di una composizione musicale viene da Eno suddivisa in tre fasi: l’idea della composizione, l’esecuzione della stessa eseguita da musicisti competenti, la lavorazione, attraverso la manipolazione, da parte del compositore. Ed è quest’ultima fase quella da Eno “preferita”.
È ictu oculi come quanto teorizzato in “Music for Non-Musicians” collimi con l’affermazione di Lucia Ronchetti, soprattutto dove recita: “Lo studio di registrazione concepito come meta-strumento compositivo, regno di elaborazione, moltiplicazione e montaggio di frammenti sonori registrati, simulacri acustici, oggetti sonori autonomi, ha permesso a Brian Eno di creare spazi elettronici immersivi che si trasformano e permeano la realtà acustica nella quale siamo immersi, modulandola secondo drammaturgie sempre cangianti”; ed è effettivamente questo il pregio più grande di Eno e “l’eredità” che ha lasciato alle generazioni contemporanee e successive alla sua, presenti e future (per completezza, da menzionare anche il celebre deck/metodo “Oblique Strategies – Over One Hundred Worthwhile Dilemmas”, pubblicato nel 1975 con Peter Schmidt).
Inutile, poiché ampiamente trattato, ripercorrere l’immensa carriera di Eno che dai Roxy Music, passando per collaborazioni illustri, come quelle con Robert Fripp, Robert Wyatt, Kevin Ayers, John Cale, Nico, Jon Hassell, David Byrne, David Bowie, Fred Frith, Dieter Moebius, Hans-Joachim Roedelius, Talking Heads, U2 … (la lista è incredibile e impressionante) e per i lavori solisti, è giunta sino ad oggi; parimenti ridondante appare stilare una discografia essenziale dei lavori, partecipazioni e collaborazioni di Eno; prendendo, invece, spunto dalla dichiarazione della Ronchetti, ciò su cui appare interessante porre l’attenzione è non su quanto operato da Eno, ma su cosa abbia comportato il suo operato nel corso dei decenni in termini di visibilità e di affrancamento di determinati “ruoli” nella musica.
Seppur possa apparire paradossale, nel elogiare il “precetto” contenuto in “Music for Non-Musicians” e condividendone pienamente l’intento, dissento da quanto da Eno stesso affermato, poiché il ruolo ivi descritto e teorizzato è, a parere dello scrivente, pienamente ascrivibile alla categoria “Musicista”.
Mi permetto, sul punto, una breve digressione comunque pertinente a quanto sopra detto; sin da adolescente ho particolarmente amato il teatro (e lo amo tutt’ora) e all’epoca, uno dei miei autori preferiti era Eduardo De Filippo. In una sua commedia, “L’arte della commedia”, Campese, capocomico di una compagnia di prosa, racconta: “Mio nonno, anche lui attore, nonno da parte di madre, comperò un sillabario per insegnarmi a leggere …. Una pagina di quel libro mi lasciò molto contrariato …. Quella che comincia a inculcare nella mente dei bambini il rispetto che si deve avere per gli uomini che con la loro attività onorano il proprio paese. In cima alla pagina c’è scritto: <<Arti e Mestieri>>. Il medico c’è, l’avvocato c’è, l’ingegnere c’è, il magistrato c’è, l’insegnante c’è; poi c’è il sarto, il falegname, il fabbro, il maniscalco… c’è perfino l’arrotino… l’attore non c’è … cominciai a chiedermi con la crudeltà che caratterizza l’innocenza dei bambini quale fosse mai il mestiere o la professione di mio nonno, di mia madre, di mio padre. Una sera mio padre mi chiese: <<Vuoi fare l’attore, da grande?>> Gli risposi: <<No.>> <<E perché>> <<Perché sennò non mi mettono nel sillabario>>”.
Questo passaggio mi colpì, e nel tempo mi è ritornato alla memoria ogni qual volta mi sia capitato di confrontarmi con qualcuno sul ruolo del musicista e di come questa parola fosse troppo spesso associata esclusivamente a un ambito “accademico” con l’esclusione di chi, sebbene “lavorasse” con i suoni, non lo facesse in modo “canonico”, attraverso uno strumento tradizionale o una partitura o intervenisse successivamente, come descritto da Eno, o in fase di missaggio o di mastering, contribuendo in modo determinante alla realizzazione finale di quanto poi all’ascoltatore restituito.
È pur vero che il ‘900, con l’avanguardia, sin dai primi del secolo, aveva in musica già rotto gli schemi tradizionali; merito di ciò fu anche di due italiani e dei loro scritti: il “Manifesto dei musicisti futuristi” del 1910 e il “Manifesto tecnico della musica futurista” del 1911, entrambi di Francesco Pratella (“Io mi rivolgo ai giovani, necessariamente assetati di cose nuove, presenti e vive …. E in Italia? Insidia ai giovani e all’arte, vegetano licei, conservatori ed accademie musicali. — In questi vivai della impotenza, maestri e professori, illustri deficienze, perpetuano il tradizionalismo e combattono ogni sforzo per allargare il campo musicale” – da il “Manifesto dei musicisti futuristi” , e ancora: “Noi futuristi proclamiamo quale progresso e quale vittoria dell’avvenire sul modo cromatico atonale, la ricerca e la realizzazione del modo enarmonico. Mentre il cromatismo ci fa unicamente usufruire di tutti i suoni contenuti in una scala divisa per semitoni minori e maggiori, l’enarmonia, col contemplare anche le minime suddivisioni del tono, oltre al prestare alla nostra sensibilità rinnovata il numero massimo di suoni determinabili e combinabili, ci permette anche nuove e più svariate relazioni di accordi e di timbri” – da il “Manifesto tecnico della musica futurista”, per entrambi fonte Wikisource.org); “L’Arte dei Rumori” del 1913 di Luigi Russolo (“La varietà dei rumori è infinita. Se oggi, mentre noi possediamo forse mille macchine diverse, possiamo distinguere mille rumori diversi, domani, col moltiplicarsi di nuove macchine, potremo distinguere dieci, venti o trentamila rumori diversi, non da imitare semplicemente, ma da combinare secondo la nostra fantasia”, afferma Russolo – da Wikipedia).
Un’Italia che con Luigi Nono, Luciano Berio e Bruno Grossato “Maderna” sarà scuola per la musica d’avanguardia del ‘900, alla pari di Arnold Schönberg e Karlheinz Stockhausen, aprendo un portale verso un universo che dai primi esperimenti di elettronica di Lev Sergeevič Termen (padre del Theremin, inventato nel 1919, portato alle grandi masse rock da Jimmy Page con Whole Lotta Love – sebbene già i The Beach Boys – sempre in ambito rock – ne avessero fatto uso come nella celebre “Good Vibrations” – e reso immortale da Clara Rockmore prima e Lidija Kavina poi) e di Maurice Martenot (inventore nel 1928 dell’Ondes Martenot, utilizzato anche da Edgard Varèse e Olivier Messiaen – per citarne alcuni – e portato all’attenzione dei più da Jonny Greenwood dei Radiohead), giunge fino alla musica concreta di Pierre Schaeffer e Pierre Henry.
Molte donne (Maryanne Amacher, Pauline Oliveros, Bebe Barron, Éliane Radigue …) sono poi state pioniere dell’elettronica (da citare, su punto, il documentario “Sister With Transistors” del 2020, diretto da Lisa Rovner con la voce narrante di Laurie Anderson a cui si rimanda).
È, quindi, evidente come un certo approccio alla musica o meglio al “suono” e alla sua “creazione” e “manipolazione” abbia visto Musicisti e Musiciste di valore sin dai primi anni del 1900 e che abbia radici profonde, saldo fusto e rigogliosa chioma: uno splendido albero (per citare il tropo della Ronchetti) che ha nel tempo ramificato, ma che è stato lungamente chiuso all’interno di un giardino recintato; “il seme” piantato da Eno (per richiamare nuovamente la Ronchetti) è riuscito ad abbattere quel muro e a portare all’attenzione delle grandi masse un linguaggio musicale “antico” con riscoperta dignità e gusto finanche “pop”.
Provando a fare un gioco, se si considera Eno come “spartiacque” e ponendo come ipotetico “anno zero” il 1973 di “(No Pussyfooting)”, realizzato in collaborazione con Robert Fripp, non può sfuggire che ai più sono sicuramente noti, con un aumento esponenziale nel tempo, lavori discografici non di Eno, ma ascrivibili al medesimo approccio creativo, successivi al 1973, rispetto a quelli di alto valore, precedenti: ciò pur rimanendo in un ambito “rock”.
Tralasciando il fatto che Eno abbia riscoperto la tecnica detta “time lag accumulator”, già usata negli anni sessanta da Pauline Oliveros e da Terry Riley (e che Riley abbia scritto i seminali “In C” nel 1964 – pubblicato poi come disco nel 1968 – e “A Rainbow in Curved Air” pubblicato nel 1969 – album che lo rese celebre anche al mondo del “rock”), mi vengono in mente, tra i più, “Psyché Rock”, brano musicale del 1967 di Pierre Henry e Michel Colombier contenuto in “Messe Pour Le Temps Présent” (i fan di Matt Groening e di “Futurama” non resteranno insensibili al suo ascolto) e i dischi omonimi dei Silver Apple e degli United States Of America (entrambi del 1968).
Anche lavori discografici coevi (anno più anno meno) al 1973 hanno subito la medesima sorte: per tutti quelli prodotti in Germania e poi catalogati come Krautrock (tra cui “Faust” dei Faust del 1971, “Zeit” dei Tangerine Dream del 1972, “Irrlicht” di Klaus Schulze del 1972, “Cluster II” dei Cluster del 1972 – i Cluster poi collaboreranno anche con Eno; curioso come nel 2001 il film di Nanni Moretti “La Stanza del Figlio” abbia attirato l’attenzione su “By This River”, scritto da Eno assieme proprio ai Cluster Dieter Moebius ed Hans-Joachim Roedelius ma comunemente associata al solo Eno).
In senso opposto si può invece ritenere che grazie a Eno un metodo di lavoro e una produzione musicale ispirata alle sue idee abbia avuto felice sorte al punto di sdoganare e restituire alle masse anche la ricerca operata dai “DJ” (anche loro Musicisti senza paura di smentita, per tutti DJ Shadow con il seminale e meraviglioso “Endtroducing…..” del 1996), le “elaborazioni” glitch (penso a Ryoji Ikeda ma ancor di più al successo di Carsten Nicolai conseguente allo sposalizio con Ryūichi Sakamoto), sino ad arrivare all’applicazione in musica dell’intelligenza artificiale di cui recente celebre esempio è stato con il brano “Now And Then” dei The Beatles (sebbene l’utilizzo dell’AI in musica sia stato teorizzato nel 1960, dal ricercatore russo R. Kh. Zaripov, messo in pratica nel 1965 da Ray Kurzweil e poi sancito, nel 2017, dalla Sony con “Daddy’s Car”).
Effettuando, quindi, un’analisi retrospettiva si può con serenità d’animo concludere che Eno, con il suo esempio e soprattutto con la sua “visibilità”, abbia “smentito” nel tempo se stesso, consegnando alla storia come Musicista il suo “Non Musicista”.
Sicuramente saranno tante le “omissioni” contenute in quest’articolo, ma la vastità del tema trattato avrebbe prodotto uno scritto enciclopedico non funzionale con il suo valore e intento “divulgativo”.
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