L’ultima impresa del grande cineasta tedesco è una pazza corsa alla scoperta dell’insondabilità di internet. Un’operazione ardimentosa, di certo non esaustiva, che rivela però quanto oggi più che mai sia necessario il pensiero dei “grandi autori” .
di Michela Aprea
Il mito di Prometeo e il rapporto muscolare, di forza, che a partire da quella immensa e primordiale conquista continua a caratterizzare il rapporto tra uomo e natura è probabilmente il fondamento della cinematografia di Werner Herzog. Di quella necessità di indagare la corsa sfrenata dell’umanità verso l’ignoto, verso il limite ultimo di manipolazione e sottomissione della Grande Madre che il cineasta tedesco ha incarnato e che resta ancora impressa lungo le vene della foresta amazzonica. Un sogno di celluloide diventato realtà, quello di “Fitzcarraldo“, che per il regista ormai settantatreenne è diventato la cifra del suo percorso cinematografico: un lungo viaggio negli angoli più ignoti dell’umanità. Un’immersione nei suoi elementi primordiali, a partire dal gioco di forza esercitato con(tro) la natura.
Un gioco definitivamente messo in discussione il 29 ottobre del 1969 in una stanza dello U.C.L.A (l’Università della California) quando fu inviato in direzione dello Stanford Research Institute il primo messaggio “host to host”: si assistette così al primo vagito di internet. E fu uno sbaglio.
IN PRINCIPIO FU UN ERRORE È lo stesso Leonard Kleinrock, professore di informatica all’U.C.L.A. di Los Angeles che, guidando lo spettatore nella sacra stanza, la 3420, racconta di quel “Login” mai correttamente recapitato (si fermò alla sillabo Lo) e che dà il titolo all’ultima opera di Herzog: “Lo and Behold: Reveries of the Connected World”, titolo malamente tradotto in italiano in “Lo and Behold. Internet: il futuro è ora”.
Un’opera straordinaria, sicuramente non esaustiva, ma comunque immensa, estremamente complessa, nella semplicità della sua forma. Un decalogo che è anche un atto di fede, un endorsement netto e spudorato, una dichiarazione libera e controcorrente, a tratti ironica, mai superficiale né compiacente. Fuori da ogni pericolo conservatorista, gli interrogativi posti dal regista tedesco assumono i caratteri di un’inchiesta filosofica, in una ricerca che intreccia irrimediabilmente temi al limite tra la bioetica, la sociologia, la teologia.
Un’indagine che solo un grande esploratore come Herzog poteva mettere in campo, capace di indagare i grandi temi che riguardano la nascita, l’ascesa e il dominio della rete nell’epoca postmoderna. Temi enormi che il regista prova a sintetizzare in grandi interrogativi, con l’intento di illustrare attraverso le voci dei protagonisti – scienziati e utenti – la genesi della più grande rivoluzione vissuta dall’uomo (dopo la scoperta del fuoco).
Eppure il 1969 è ricordato per un altro grande evento: quel primo passo sulla Luna, così straordinariamente cinematografico che finì per mettere in sordina, la scena così tristemente nerd della nascita della rete, quella scoperta che oramai da oltre vent’anni ha completamente stravolto la vita dell’uomo e della natura, compromettendone il rapporto dualistico, arbitrato soltanto da dio, per mettere in campo una triangolazione dagli effetti incontrollabili: qual è il mondo reale, quale quello virtuale? Quali sono i confini dell’uno e dell’altro? Quali i rischi di una società robotizzata? Verso dove ci stiamo incamminando?
Questioni incommensurabili a cui Herzog sembra non avere intenzione di rispondere e che mirabilmente pone ai diretti responsabili e cioè a coloro i quali ad internet hanno dato i natali o che continuano ad alimentarla, con un fare a tratti guascone: dissacratorio e disarmante.
E allora eccoli sfilare sullo schermo in una sequenza che nulla lascia al caso oltre al già citato Kleinrock; Danny Hillis informatico della prima ora, presente sul primo elenco dei contatti di internet, un catalogo nato per mettere in connessione una piccola comunità di utenti, dove tutti conoscevano tutti, che all’epoca non avrebbe (forse) mai immaginato di raggiungere un mole spaventosa in grado di connettere miliardi di persone; Ted Nelson, il papà del concetto di interconnessione; l’hackerstar Kevin Mitnick; gli scienziati e ricercatori Adrien Treuille, Sebastian Thurn e Raj Rajkumar, Joydeep Biswas, che punta a perfezionare i suoi robot con l’intento di creare nel 2050 una squadra in grado di gareggiare e vincere con i migliori giocatori al mondo e la famiglia di Nikki Catsouras, morta in un incidente stradale le cui foto sono state oggetto di un terribile atto di ciberviolenza di cui il padre è stato vittima.
Ma sono anche riportate le storie e le esperienze di quanti hanno fatto della rete la propria malattia, “ciber addicted” fagocitati “dall’altra parte”, completamente risucchiati dalla rete e non più in grado di rispondere ai propri bisogni, figurarsi a quelli degli altri, in una corsa alla propria affermazione virtuale che è negazione della realtà. O quelle, preoccupanti, di scienziati completamente disinteressati alle possibili conseguenze degli effetti delle proprie ricerche sul genere umano.
È di fronte a tali racconti e scenari che il regista non riesce a non marcare la propria impronta e tradisce i canoni del documentario per ficcare indimenticabili sciabordate dissacranti, come l’immagine, meravigliosa, di un gruppo di monaci buddisti ipnotizzati, come comuni adolescenti, dai loro smartphone. E allora la domanda nasce spontanea: ma i monaci hanno smesso di meditare?
E INTERNET SOGNA SE STESSO? Un robot sarà in grado di comprendere l’amore? Cosa succederebbe se la rete smettesse di funzionare all’improvviso? L’essere umano sarà in grado di cavarsela quando Internet finirà? Interrogativi enormi a cui gli intervistati provano a dare – a tratti con esiti tristemente ridicoli – una risposta, a delineare i contorni di un blob enorme e fagocitante, la cui esistenza ci pone di fronte a dilemmi importanti a cui ancora non siamo in grado di dare una risposta. O forse sì.
E allora lungi da ogni deriva luddista, Herzog regala allo spettatore il suo punto di vista in una scena meravigliosamente simbolica che si erge quasi a testamento: e allora eccolo in un turbinio di voci, canzoni, musica, convivialità, scoppiettare il fuoco sacro e ridare slancio al mito primigenio, quello su cui si fonda il rapporto tra uomo e natura.
Finanziato dalla NetScout, azienda che si occupa di cibersecurity, Lo and Behold è prodotto dalla Saville Productions e distribuito in Italia da I Wonder Pictures.
Musica: Mark Degli Antoni, Sebastian Steinberg.
Montaggio: Marco Capalbo.
Fotografia: Peter Zeitlinger
Durata: 158’
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