La band post punk capitanata da Craig Dyer (originario di Blackpool) con base a Berlino pubblica per etichetta Fuzz Club il suo nuovo disco Décollage, per il quale Craig ha fatto da produttore e autore in piena solitudine, occupandosi anche della regia delle registrazioni. Il titolo (e anche la copertina) rappresenta l’idea estetica principale del disco per la band sempre vogliosa di sperimentazioni. “Il Decollage è una tecnica di creare immagini ritagliando strappando o rimuovendo pezzi da un lavoro già esistente. Ho voluto applicare questa tecnica alla musica, costruendo samples di batteria, vari livelli di arrangiamenti di archi e tastiere in stile Lee Hazlewood e melodie con il mellotron ispirate da Serge Gainsbourg, per poi ritagliare e togliere da questi muri caotici di suono”.
Il risultato? Nelle parole del leader è stato “una colonna sonora trip hop con testi che riguardano adorazione, eredità, originarietà, allucinazioni rivoluzionarie e una speranza che qualcosa di buono possa nascere dall’orrore che esiste nel mondo oggi”.
Il singolo che apre e lancia il disco, You (The Feral Human Thunderstorm), per Dyer letteralmente “apre il disco a calci introducendo subito il mood dell’intero disco, è melodicamente una ballata romantica ma scavata attraverso un suono totalmente nuovo per i The Underground Youth.”
In effetti il sample di batteria ad opera di Olya Dyer che si ascolta in You lo ritroviamo poi in altri pezzi, anche se qui viene accompagnato da tastiere e violini, introducendoci in un’atmosfera rarefatta, dream pop. Craig si lancia in un canto romantico, evocativo, suggestivo, e la medesima atmosfera viene replicata in From The Ashes Of Our Age, che però di romantico ha poco trattandosi del pezzo, come dice anche il titolo, in cui Dyer evoca la possibilità che il nostro mondo rinasca dalle ceneri attuali.
Testualmente rispetto al predecessore Nostalgia’s Glass (2023), disco più intospettivo, la band qui usa testi e melodie molto altisonanti, costruiti, epici, potenti, cercando decisamente il trionfo dell’orchestralità e delle esplosioni di suoni, come per esempio in Your Beloved Hollywood, che si basa su specie di una marcia militare, o in I Was There, dove torna di nuovo il sample di batteria che fa da alfiere del disco, stavolta introdotto dal basso di Samira Zahidi e da graffianti intro di chitarra di Leonard Kaage che introducono un’atmosfera vagamente onirica per un blues alla Tom Waits. Sulla scia di Mercury Rev e Flaming Lips è poi la notevole ballad Calliope, in cui il solito giro di batteria entra solo a metà pezzo, introdotta dal coro suadente di voci femminili e accompagnato da un unico riff di poche note di chitarra.
Completano il disco Father e One of the Dreamers, due canzoni fotocopia che inevitabilmente risentono in senso negativo della tecnica del decollage applicata dalla band, perché qui né il ritmo né le sfumature sonore riescono a differenziarsi e darsi una originalità o almeno un valore individuale all’interno del disco, dato che arrangiamenti e batteria sono “ritagliati” come detto dal muro sonoro preparato a monte
Invece uno dei momenti migliori del disco è Believe in Something, dove le melodie inseguite in tutto il disco trionfano in un finale epico ed energico.
Complessivamente, per la band (nata come progetto solista di Dyer) che dal 2008 ha sfornato incessantemente ben 12 dischi e 4 EP al ritmo di quasi un lavoro all’anno, questo dodicesimo disco rappresenta la conferma del loro sound originalissimo che si è mosso negli anni da una psichedelia lo-fi a un post punk malinconico, fino all’attuale gothic folk elettronico. Un sound affascinante, suadente, ipnotico, che risente in difetto solo forse dell’eccessivo protagonismo di Craig, onnipresente, e della volontà tentata in quest’album di procedere per tagli e sottrazioni, il che finisce inevitabilmente per rendere la base sonora e soprattutto ritmica troppo simile a se stessa.
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