Addio alla Taylor, la donna dagli occhi viola
Ha fatto innamorare almeno tre generazioni di spettatori in tutto il mondo e alcuni hanno anche avuto la fortuna di averla tutta per sé, l’attrice i cui matrimoni hanno fatto notizia almeno quanto i suoi film. Difficile parlare di Elisabeth Taylor nel giorno della sua scomparsa, una carriera folgorante ed una vita privata forse anche più popolare, con un seguito mediatico senza precedenti nella storia del cinema. Forse ci possono aiutare i numeri: 7 matrimoni -e 8 mariti- 4 figli, 55 lungometraggi, 2 Oscar, 2 David, più una decina di nomination, tutte tra la fine degli anni Cinquanta e la metà degli anni Settanta, epoca in cui il nomignolo Liz (che l’attrice peraltro odiava) dominava le cronache e da solo bastava per capire di chi si stava parlando. Settant’anni di cinema, di vita, di flirt, con un unico comune denominatore, un fascino irresistibile e senza scampo.
Figlia d’arte (la madre fu attrice negli anni Venti col nome di Sara Sothern) era tornata da Londra negli Stati Uniti a sette anni allo scoppio della seconda guerra mondiale. La prima scrittura è un cortometraggio ma già nel 1943 ottiene l’attenzione internazionale con “Torna a casa Lessie!” di Fred Wilcox dove è la piccola padroncina del cane più famoso del grande schermo. Saranno poi i personaggi di in Amy in “Piccole Donne” e le apparizioni nei film di Vincente Minnelli, a cominciare da “Il padre della sposa”, ad aprirle la strada per i successivi ruoli di giovane donna sofisticata e volitiva, fatale e lussuriosa che la consacreranno per sempre al grande pubblico. Indimenticabile Angela Vickers in “Un posto al sole”, è protagonista ne “La gatta sul tetto che scotta”, prima di virare verso personaggi dalla moralità più complessa, una svolta che la condurrà dritta verso l’Oscar, il primo, per “Venere in visone”.
Un cambiamento che si ripercuote e la insegue parallelamente nella vita privata che diventa un susseguirsi di lutti, divorzi -seguiti da altrettanti nuovi matrimoni- scanditi in un ritmo frenetico tra un set e l’altro. La vera e propria “Liz mania” scoppia negli tardi anni Cinquanta quando la notorietà dell’attrice è alimentata da un lato dalla pubblicità che accompagnava l’uscita dei suoi film (su tutti quella di “Cleopatra” di Joseph Mankiewicz), dall’altro dal risalto sulle cronache rosa delle sue vicende sentimentali, un circolo vizioso che ebbe come effetto quello di accrescere la popolarità dell’attrice, ormai icona del jet set e stella indiscussa. Al primo matrimonio con Richard Burton, corrisponde la seconda statuetta dell’Academy, con “Chi ha paura di Virginia Wolf?” la Taylor mise a tacere tutti coloro che l’avevano sempre considerata un’attrice bella e poco più.
Con gli anni Settanta le apparizioni si diradano, sempre meno cinema e più teatro e televisione. Il suo ultimo personaggio sul grande schermo è quello della suocera ne “I Flintstones” (è il 1994) ma più che con la rozza pelle d’animale, il ricordo della Taylor sarà associato sempre a una donna elegantissima, carica di lustrini e con la chioma folta, bruna e spettinata. I più giovani hanno imparato a conoscerla per il suo impegno civile e filantropico: più che sullo schermo, l’abbiamo vista nei suoi ultimi anni in prima linea nelle cause umanitarie (è stata tra i fondatori dell’ American Foundation for Aids Research) oppure stretta al fianco di Michael Jackson durante il suo lungo processo. Una donna mai doma, in grado di uscire vittoriosa dall’ospedale contro un cancro benigno al cervello e con un nuovo marito.
Della Taylor, la prima attrice al mondo a guadagnare un milione di dollari per un film, si è detto tutto e anche di più, merito della sua personalità ingombrante, da mostro sacro. Di lei ci restano decine di indimenticabili titoli e certo una stella sull’ Hollywood Boulevard, ma non solo: restano le immagini della sua sensualità -meno voluttuosa ed esposta di quella della quasi coetanea Marylin, ma tuttavia pregnante- e dei suoi occhi viola che hanno girato il mondo attraverso la celluloide; resta la schiettezza e quel senso di protezione quasi materno che ha offerto agli amici di set e compagni sinceri, tra cui James Dean, Rock Hudson e Montgomery Clift -al quale salvò praticamente la vita a seguito di un incidente mortale. Restano l’ammirazione di autori come Tenesse Williams che le affidò alcuni suoi testi tra cui “All’improvviso l’estate scorsa”, e quella smisurata passione per i gioielli, di cui è testimonianza la House of Taylor Jewelry dove è possibile ammirare gli oltre 69 carati del diamante Taylor – Burton, (e qui la Taylor ironicamente rispondeva: “Le grandi donne hanno bisogno di grandi diamanti”).
Da enfant prodige a Dama del British Empire, a modella di Warhol, la Taylor ha vissuto per 79anni quella che del cinema viene definita l’epoca d’oro. Di quel tempo remoto ci resta ancora qualcuno certo, tra cui Doris Day, la Fontaine e la De Havilland, eppure con Liz sembra proprio sia scomparsa l’ultima grande diva. Proprio a Los Angeles ha trascorso i suoi ultimi giorni, all’ombra di quegli studios che l’hanno resa grande.
Autore: Vittoria Romagnuolo