Dopo il successo ottenuto con “As The Love Continues” del 2021, che gli è valso il primo posto nelle classifiche di vendita nel Regno Unito, i Mogwai aprono il loro trentesimo anno di attività con un disco di pregevole fattura che ne consolida il loro status di punta di diamante del rock scozzese e britannico in generale.
Il loro undicesimo album in studio, escluse le colonne sonore o le compilation, intitolato The Bad Fire, nasce dalle canzoni scritte in prevalenza da Barry Burns, dopo aver vissuto un periodo straziante vedendo sua figlia soffrire di una grave malattia, per fortuna ora risolta. A Glasgow, “the bad fire” è un termine della classe operaia che indica l’inferno, e forse meglio di ogni altro termine può sintetizzare l’esperienza dolorosa vissuta da Burns, ma che non si è tradotto in un album cupo, se non in alcuni passaggi messi al centro del disco in special modo nel brano “If You Find This World Bad, You Should See Some Of The Others”.
L’apertura è affidata a “God Gets You Back” un brano costruito su suoni di synth stratificati che si sviluppano in vortice quasi a nascondere le chitarre minimali sorrette dalla ritmica dinamica che serve a introdurre le melodie vocali di Stuart Braithwaite che vengono come sempre ultrafiltrate. La successiva “Hi Chaos” è decisamente una classica interpretazione dello stile Mogwai e la stessa cosa si può dire di “What Kind Of Mix Is This?” che attualizza e proietta nel futuro il classico suono del gruppo scozzese.
Come sempre non mancano i titoli delle canzoni astratti e spesso poco attinenti all’incedere dei brani che contraddistinguono. “Fanzine Made Of Flesh!” è il brano pop dell’album, perfetta e gioiosa nella sua linea melodica, ma anche ricca di suoni da scoprire ad ogni ascolto, che fa da spartiacque con la sezione centrale del disco, dove i toni si fanno più cupi con le chitarre protagoniste di “Pale Vegan Hip Pain” che riescono a rendere l’atmosfera dolorosa e struggente attraverso una melodia a tratti straziante, creata in maniera coinvolgente pur in assenza di un qualsivoglia testo che ne esplichi il senso.
Un concetto che si rafforza con il successivo strumentale “If You Find This World Bad, You Should See Some Of The Others” che dapprima si sviluppa in maniera lenta e minimale per esaltare il tono cupo del branco che verrà stravolto nella parte finale da un vero e proprio muro di rumore con il tipico crescente heavy, e allo stesso tempo melodico, che ha fatto la fortuna del gruppo, sin dai suoi esordi. “18 Volcanoes” è un’altra canzone costruita ad alta intensità emotiva sul cantato di Braithwaite, mentre le chitarre distorte, il basso fuzzy e il synth tracciano atmosfere shoegaze che veleggiano dalle parti dei My Bloody Valentine.
“Hammer Room” verte ancora sul dualismo te le linee di synth che sembrano un magma pronto ad esplodere sotto le linee di chitarra, per spingere i riff melodici sempre più in alto, prima che decrescano pacatament verso un finale che svolge perfettamente il ruolo di introduzione a “Lion Rumpus”, l’altro brano ‘pop’ del disco, con le note persistenti, la batteria martellante, grandi riff di chitarra e strati su strati di strumentazione.
La traccia di chiusura “Fact Boy” sembra condensare nei suoi sette minuti non solo tutti i temi dell’album, ma tutta l’essenza dei Mogwai stessi. Un brano delizioso con strati di melodie che si insinuano dolcemente attraverso il crescendo del brano che andrà successivamente a dissolversi mascherato da un’esplosione di effetti e rumori che rimettono tutte le cose a posto, mettendo in risalto l’aspetto curativo della musica che riesce sempre a lenire anche il doloro più profondo. Ancora una volta i Mogwai ci hanno regalato un disco di grande qualità.
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