C’è un passo di Anaïs Nin, tratto dallo splendido “House of Incest”, che recita: “This morning i got up to begin this book i coughed. Something was coming out of my throat: it was strangling me. I broke the thread which held it and yanked it out. I went back to bed and said: I have just spat out my heart”.
Ed ascoltando Laurie Anderson ho sempre avvertito come se avesse anche lei spezzato, con “automatic arms” (parole prese in prestito da “O Superman”) il filo che legava il suo cuore, sputandolo via… per sostituirlo, in modo “scientifico” (“Big Science”), con una mente lucida, razionale e in alcuni frangenti ai confini dell’umano.
Ciò che infatti ha rappresentato il limite artistico dell’Anderson, e che come vedremo caratterizzerà anche “Amelia”, a parere dello scrivente è sempre stata l’eccessiva “freddezza”, per un approccio, come detto, scientifico, calcolato e spesso ai confini dell’umano e alla lunga “mono-tono” poiché privo di cuore (ci sta un frase di Lucio Dalla nelle “Le Cicale e le Stelle” che rende bene l’idea: “Noi volevamo avere tutto, tutto quanto calcolato, fino a quando abbiam perduto anche il tempo per un bacio”).
Allo stesso tempo la sua arte, essendo “multidisciplinare” e soprattutto anche visiva, più che su disco, si è sempre esaltata e completata in tale composita dimensione: celebre sono le esibizioni alla Brooklyn Academy of Music di New York City del 7-10 febbraio del 1983 che daranno vita al monumentale “United States Live” pubblicato nel 1984, opera che probabilmente meglio rappresenta l’Anderson, colta nel suo periodo di maggior interesse e ispirazione.
È, però, innegabile che Laurie Anderson sia stata negli anni ottanta una delle personalità di spicco per l’“avanguardia”, nella sua precipua commistione tra musica, “recitato” e “arte visiva”; se però si considera che negli stessi anni la scena musicale “sperimentale” vedeva esprimersi anche Diamanda Galás (autrice degli eccelsi “The Litanies of Satan” del 1982 e “Diamanda Galás” del 1984), da un confronto tra le due, si può facilmente percepire come fossero agli antipodi, e come la Galás incarnasse e rendesse umano tutto quanto l’Anderson non facesse. Che fosse un periodo d’oro, lo certifica il fatto che, allo stesso modo, un’altra grandissima artista di nome Meredith Monk, tra il finire degli anni settanta e primi anni ottanta, (di)mostrava come si potesse contemperare la restituzione di un’“avanguardia” multidisciplinare con un’anima pulsante e sospesa tra la terra e il cielo con “Key” (del 1978), gli splendidi “Songs from the Hill/Tablet” (del 1979) e “Dolmen Music” (del 1980) nonché “Turtle Dreams” (del 1983).
Altrettanto innegabile è che “Big Science” (del 1982), il debutto dell’Anderson come solista, sia stato un lavoro generazionale e a suo modo capace di cogliere gli umori del momento ponendosi sulla linea di confine tra il “colto” e il mainstream, tanto da trovare anche successo “commerciale” con “O Superman” e da imporsi con brani come “From The Air”, “Big Scienze”, “Let X=X”… (da segnalare prima di “Big Science”, del 1981, “You’re the Guy I Want to Share My Money With”, a nome Laurie Anderson, John Giorno e William S. Burroughs; nel disco compaiono anche brani quali “Dr. Miller”, “Closed Circuits”… che citeremo nuovamente in seguito).
Ad ampliare gli orizzonti di “Big Science” (recuperando anche le esperienze di “You’re The Guy I Want To Share My Money With” e proiettandosi verso “Mister Heartbreak”) ci penserà il già citato e totalizzante “United States Live” in cui, tra teatralità, visioni e spoken, spiccano “Walk the Dog”, “Closed Circuits”, “From the Air”, “O Superman”, “Neon Duet”, “Let X=X”, “Language Is A Virus From Outer Space”, “City Song”, “Dr. Miller”, “Big Science”, “Blue Lagoon”, “We’ve Got Four Big Clocks (and they’re all ticking)”, “Classified”….
Come per un paradosso, nei su citati due lavori, il denunciato limite di Laurie Anderson si rivela anche come la sua intuizione più felice, poiché qui mirabilmente equilibrato e incredibilmente funzionale.
Se la denunciata “freddezza” dell’Anderson trovava, quindi, una sua giusta collocazione nelle atmosfere di “Big Science”, e anche in gran parte in “United States Live”, diventandone anche la caratteristica principe, la sua eccessiva “aristocratica” espressività strideva forte con il melting pot musicale di “Mister Heartbreak” (del 1984), in cui (appunto) più “cuore” e meno “testa” avrebbe sortito un effetto migliore, considerando anche la partecipazione di nomi “noti” come tra l’altro William S. Burroughs, Peter Gabriel, Bill Laswell, Adrian Belew, Anton Fier, Van Tieghem… (di rilievo oltre la citata “Blue Lagoon”, “Sharkey’s Day”, “Gravity’s Angel”; in “Excellent Birds” è forte l’impronta di Peter Gabriel – che ne è coautore – per un brano che avrebbe potuto trovare tranquillamente posto in uno dei suoi dischi, mentre in “Sharkey’s Night” è la voce di Burroughs a caratterizzare); ciò al pari di “Home of the Brave” (colonna sonora dell’omonimo film/concerto del 1986) in cui la componente “pop” e il “formato canzone” arrivava a delinearsi con estrema efficacia come in “Language Is a Virus”, lasciando intravedere quale fosse la via che l’Anderson aveva deciso di intraprendere.
In “Strange Angels” del 1989, se si pensa a “Big Science” o a “United States Live”, si stenta a riconoscere l’Anderson, per un disco in cui l’avanguardia lasciava sempre più il posto a un discutibile piglio “radiofonico” (come testimoniano “Strange Angels”, “Monkey’s Paw”, “Ramon”, il cantato di “Babydoll” e di “Beautiful Red Dress”…); Laurie Anderson riesce (incredibilmente) ad apparire “fredda” anche “all’inferno” nella promettente “The Day the Devil” (che se affidata a Nick Cave sarebbe stata eccezionale).
Con “Bright Red” del 1994 l’Anderson metteva meglio a fuoco l’intenzione di proporre anche “canzoni” di qualità e, grazie a collaborazioni ancora una volta di spicco (Brian Eno, Arto Lindsay, Lou Reed, Adrian Belew, Marc Ribot), proponeva una più convincente mediazione tra passato e presente per un disco che trovava nella “cupezza” la sua luce artificiale (come testimoniano finanche momenti più “ordinari” quali “Speechless”, “The Puppet Motel”, “Freefall”, “Muddy River”, “Beautiful Pea Green Boat”, “Poison” e meditativi quali “Love Among the Sailors”….); a “Bright Red” seguirà lo spoken di “The Ugly One with the Jewels and Other Stories” del 1995, poco convincente nella costruzione tra parole e musiche.
Con “Life on a String” del 2001, Laurie Anderson, in modo raffinato, si votava a un cantautorato colto con a tratti influenze classiche (“Pieces and Parts”, “Slip Away”, “Dark Angel”, “Washington Street”, “Statue of Liberty”, “Life on a String”…) caratterizzato da una massiva presenza del violino (e degli archi); le vecchie sperimentazioni si nascondevano in “My Compensation”, “One Beautiful Evening” e non mancavano momenti di alt pop come in “Broken”; nel 2002 a “Life on a String” seguirà “Live in New York” (“Live at Town Hall: New York City, September 19–20, 2001”) distante negli anni e nel pensiero da “United States Live” e (per grandi linee) figlio del suo tempo malgrado la presenza di vecchi classici quali “Let X = X”, “Sweaters”, “O Superman”… e di brani quali “White Lily”, “Beginning French”, “Love Among the Sailors”; interessante confronto è tra la “Coolsville” di “Strange Angels” e quella qui presente vestita di un abito più “pop”.
“Homeland” del 2010 fondeva classica, tensioni etniche, pulsioni elettroniche (anche marcate come in “Only an Expert” o in “Bodies in Motion”…), con parlato e voce (portata talvolta verso l’estremo come in “Transitory Life”) e ancora una volta il prodotto finale era come se restasse “esposto” dietro una lastra di ghiaccio.
Nel 2015 la colonna sonora “Heart of a Dog” in cui la voce narrante dell’Anderson era protagonista e in cui compare anche Lou Reed con la sua “Turning Time Around”.
Va poi detto che la fama dell’Anderson l’ha portata a collaborare con musicisti del calibro (tra i vari) di Lou Reed e John Zorn (presenti anche quali ospiti nei suoi dischi) nello sperimentale e “free” “The Stone: Issue Three” del 2008 (a firma dei tre), nel 2016 con Brian Eno e Ebe Oke per il “misterioso” “Dokument #2” (pubblicato in edizione limitata nel 2020), nel 2018 con i Kronos Quartet per “Landfall”, disco che, malgrado il successo, personalmente non mi ha mai appassionato trovandolo “impalpabile” sebbene “ispirato” dall’esperienza della Anderson con l’Hurricane Sandy, oltre che composto da troppe tracce, nonché nel (solo poco più convincente) “Songs From The Bardo” con Tenzin Choegyal e Jesse Paris Smith, dedicato al Bardo Tödröl Chenmo (Libro tibetano dei morti) del 2019.
– “Amelia”
Con “Amelia” (Nonesuch Records), nel 2024, Laurie Anderson decide di rendere omaggio ad Amelia Mary Earhart, aviatrice statunitense e pioniera dell’aviazione, dispersa, con l’aviatore Frederick Joseph Noonan, il 2 luglio del 1937, nell’oceano Pacifico mentre circumnavigavano il globo: “it comprises twenty-two tracks about renowned female aviator Amelia Earhart’s tragic last flight. Anderson wrote the music and lyrics. She is joined on the album by Filharmonie Brno, conducted by Dennis Russell Davies, and Anohni, Gabriel Cabezas, Rob Moose, Ryan Kelly, Martha Mooke, Marc Ribot, Tony Scherr, Nadia Sirota, and Kenny Wolleson”, si legge sul sito https://laurieanderson.com/2024/06/26/amelia/, consultato il 16.9.24.
“Amelia” si colloca nel solco da sempre tracciato dalla Anderson, fondendo contenuto (in questo caso) storico ma allo stesso attuale per tematica (la citata storia dell’aviatrice Amelia Earhart), recitato e musica come sempre “colta”: “….To circle the world from east to west/And to become the first woman to circumnavigate the Earth/I see something shining …”, recita “To Circle the World” in apertura del disco; ed ancora le parole della stessa Amelia Earhart sono significative in “This Modern World”: “This modern world of science and invention is of particular interest to women, for the lives of women have been more affected by its new horizons than those of any other group, It is in the home that the applications of scientific achievement have perhaps been most far reaching, and it is through changing conditions there that women have become the greatest beneficiaries in the modern scheme”.
L’opera è (appunto) articolata in 22 “medio/brevi” composizioni in cui lo spoken e un “rado” cantato è sorretto da tappeti sonori (tra cui spiccano gli archi) che seppur mantengano alta e ferma la drammatica tensione con momenti ora minimali ora d’avanguardia, sortiscono un risultato finale che, in perfetto stile Anderson, appare “distaccato” anche nella narrazione di emozioni forti.
Più il disco gira, più permane quella costante sensazione che Laurie Anderson sia più attenta a curare l’urgenza di essere “avanguardia” piuttosto che esprimere un umano pathos.
I rari momenti in cui l’etereo scorrere prende solida forma è negli interventi di Anohni (ospite) in “Aloft”, “Crossing The Equator”, “India And On Down To Australia” o in “Flying At Night”, ma questi restano flebili scosse in un lavoro discografico che, come anche accaduto spesso per il passato, perplime nella forma che non rende giustizia ai contenuti.
https://laurieanderson.com/
https://www.facebook.com/LaurieAnderson
https://www.instagram.com/laurieandersonofficial