I Three Second Kiss dopo oltre dieci anni sono ancora in giro, e a fine luglio hanno registrato il loro quinto disco presso i Red House di Senigallia; ancora una volta con Steve Albini in consolle. Ne abbiamo approfittato per fare quattro chiacchiere con il loro chitarrista, Sergio Carlini. Il trio è completato da Massimo Mosca (basso e voce) e da Sasha Tilotta (batteria), che da un anno e mezzo ha sostituito il batterista storico Lorenzo Fortini.
Come presenteresti i TSK ad un ascoltatore neofita?
I TSK ci sono da un bel po’ di anni, il nostro primo disco “For pain relief” è del 1996. Siamo una band che in parte ha definito il sound degli anni ’90 e siamo ancora qua per il nostro quinto disco. Non siamo stati prolificissimi negli anni, abbiamo suonato molto dal vivo. Passando da etichette italiane, la Wide Records, ad una Usa, nel 1999, infatti, pubblicammo per un’etichetta che ora purtroppo non c’è più, la Slowdime records, che era una sussidiaria della Dischord dei Fugazi di Washington. Ora questa etichetta non c’è più, quindi i TSK apriranno una nuova fase. L’intento è sempre quello di suonare all’estero.
Perché avete fatto trascorrere tanto tempo tra un disco e l’altro?
Sono ragioni esistenziali, più che artistiche. I primi dischi sono usciti distanziati secondo i tempi standard dell’industria, il primo disco è del ’96, il secondo (“Everyday-everyman”) è del 1998, poi ne uscì uno addirittura nel 1999, che era un Ep in vinile, il primo su Slowdime “Focal point”. È stato dal 2000 che abbiamo un po’ rallentato il passo, perché abbiamo suonato molto dal vivo, siamo stati in Usa, quindi ci sono state delle esperienze che sicuramente hanno dilatato la produzione dei nuovi brani. Sono state esperienze fondamentali per il gruppo, una sorta di estensione territoriale, poi tutti oltre a suonare, abbiamo sempre continuato a lavorare, anche per mantenere anche la nostra musica. In quel caso inevitabilmente i tempi si dilatano, gli anni passano, ma non abbiamo mai smesso di produrre, di concepire, di suonare, però non ci siamo neanche sottoposti a dei ritmi estenuanti di concerti, né forzati ad un ritmo standard di produzione discografica. Essendo inseriti nel filone del rock indipendente siamo consapevoli del fatto che quando si fa un disco, poi non c’è una programmazione fissa come per le major e quindi inevitabilmente si slitta di qualche anno. Ma per noi è sempre andato bene così.
Anche perché così siete sempre stati liberi di muovervi come volevate e come volete.
Si, è sempre stato così, del resto il nostro giro è fondato più sull’amicizia, sulla passione per la musica, se si passa poi il master di un disco, sappiamo quando l’etichetta lo può far uscire e se esce sei mesi dopo per noi va bene lo stesso, l’importante è essere in quella famiglia lì.
State ultimando la registrazione del vostro quinto disco e non sapete con quale etichetta uscirete?
No, visto che il nostro ultimo disco “Music out music” è del 2003 ed uscì per la Slowdime e da allora abbiamo cominciato a lavorare molto con Steve (Albini, nda.), sia in studio, che a suonarci dal vivo, ci sentivamo pronti e abbiamo deciso di lavorare in due tempi, il primo quello della registrazione ed il secondo sarà quello della ricerca di un’etichetta, abbiamo alcune cose in ballo, ma niente di definitivo. Abbiamo colto il momento creativo che si è chiuso, quindi abbiamo avuto la voglia, l’esigenza di registrarle subito. Spero che possa uscire nei primi mesi del 2008.
Questo è il secondo lavoro registrato da Albini, mentre “Everyday everyman” era stato registrato con David Lenci e Venetis del Red House.
No la produzione musicale è stata fatta in Sicilia da un personaggio che da noi era piuttosto conosciuto negli anni ’90, adesso è un po’ defilato, che è Ian Burgess, che è il padre tecnico di Albini, dal punto di vista del sound engegnering, ha prodotto alcuni dischi dei Big Black. È un americano molto tosto che ha uno studio in Francia.
Come sta andando con Albini, insieme a Lenci e Venetis?
Sta andando molto bene, è il secondo disco che facciamo insieme, lui sa come lavoriamo noi e noi come lavora lui, la nostra esigenza è quella di rendere l’acustica più pura elettrica del gruppo, sta andando benissimo, siamo molto soddisfatti. Era strano che non fossimo venuti mai, anche perché questo studio l’abbiamo visto nascere, era ora di venire qui.
Quali sono le tematiche dei vostri brani?
Questo disco è un po’ diverso dagli altri, sia dal punto di vista testuale, che sonoro. Noi da sempre abbiamo considerato la voce l’elemento che scaldava, umanizzava il suono. La voce è sempre stata usata in maniera parca, quasi uno strumento, anche se non traccia le linee melodiche ben nette, è quasi un soliloquio, diciamo l’elemento empatico nel sound del gruppo. In questo disco i testi li abbiamo scritti tutti, mentre prima li scriveva solo Massimo, il cantante, che è un lynchiano convinto, per cui si passava da situazioni quotidiane un po’ irreali, con qualche allucinazione, quel lieve straniamento che può essere anche normale, ma anche Sasha, il nuovo batterista che ha sostituito Lorenzo Fortini, ha una vena un po’ romantica, lui è appassionato di poeti inglesi come Byron, si è ispirato ad alcuni loro poemi e poi ci sono alcuni brani miei, io ho un tipo di scrittura loureediana, molto pulita, essenziale, quindi dal quotidiano al romantico. Questa volta abbiamo preso questa nuova direzione. L’innesto del nuovo batterista, molto più giovane di voi, cosa ha comportato dal punto di vista musicale?
Ovviamente in parte ha modificato le dinamiche interne alla band, è naturale soprattutto in un gruppo di tre elementi, dove le concatenazioni sono essenziali e decisive, ovviamente le dinamiche hanno trovato una nuova rotta. Sasha è entrato in un momento per noi importantissimo, perché la band stava soffrendo per l’assenza del batterista, per cui è entrato e ha rinfrescato completamente il nostro suono, ed ha razionalizzato la nostra volontà di rimanere con un suono molto nervoso, instabile, umorale, ma dargli anche un po’ di frontalità, che se vuoi prima nel nostro suono mancava, perché la direzione della band era un’altra. Per cui c’è sempre un po’ di destrutturazione, ma anche compattezza. Il suono è molto dinamico, noi siamo molto contenti, metaforicamente siamo molto più front of face, di prima.
L’ho notato al concerto di Rimini, dove mi sembravate sospesi tra il precipitare ed il contenimento, questa sensazione è condivisibile per te?
Si, dal vivo, emerge maggiormente questo aspetto, anche perché in scaletta ci sono ancora brani vecchi, insomma questa è una caratteristica dei TSK, questa implosione-esplosione, ma nel nuovo disco c’è ancora in parte questo aspetto, ma anche più liberazione, una maggiore apertura.
Tornando al nuovo batterista, la differenza anagrafica, ha comportato anche l’innesto di una maggiore energia?
Si, indubbiamente, c’è servito un po’ di tempo, anche se stiamo insieme da un anno e mezzo, ci ha sicuramente dato una marcia in più, la giovane età conta per questo aspetto testosteronico, ma siamo amici di lunga data, sapevamo come suonava Sasha, quindi è stata una mossa molto calcolata.
In questo nuovo lavoro avete continuato con le sonorità post-rock o avete cercato strade diverse?
Ovviamente una band cerca sempre di evolversi, di non ripetersi, quindi questa è la prerogativa. Noi non amiamo molto le etichette, ci consideriamo ancora una band di punk rock molto viscerale, e questo disco lo è ancora.
Voi amate molto il nuovo sound di Chicago, ma delle sue radici blues vi portate qualcosa dietro?
Si, e sicuramente traspare, appena metti il polpastrello sulla tastiera della chitarra, è impossibile non tirare fuori qualcosa che non sia riconducibile al blues.
Per questo nuovo disco ci sono stati degli ascolti che sono stati determinanti?
No dal punto di vista musicale, anche se prima si è parlato di Chicago e già quello basterebbe, ma siamo comunque tutti degli onnivori di musica, non c’è un ossessione particolare, se non quella di Sasha per i poeti simbolisti, ma è un dettaglio, per cui non c’è stato un riferimento particolare. Penso che sia un disco molto versatile, molto vario e di questo sono molto contento.
Voi siete stati in tour negli Usa ed in Italia, qual è la differenza principale che avete riscontrato nel pubblico?
Siamo stati negli Usa in due momenti differenti. Un primo è stato alla fine degli anni ’90 che per la musica è stato un momento di demarcazione fondamentale, per cui siamo andati nel 1999 in tour con i June of ’44, con i quali abbiamo fatto un tour massiccio di 25 date, è stata un’esperienza fondamentale per la band. In quel caso ho sentito una differenza nell’atteggiamento del pubblico, cioè in Usa ho percepito che il rock fa parte della cultura autoctona, mentre in Europa c’è un aspetto derivativo, esterofilo, per cui c’è più snobismo nell’ascolto, mentre negli Usa c’è molta naturalezza è come se venissero ad ascoltarti in sala prove. Ci siamo poi tornati nel 2003 e questo aspetto l’ho percepito di meno, l’effetto globalizzante attuale sta livellando l’aspetto culturale, ma lo dico in maniera positiva. Fare uno show in Usa o in Italia oggi sta diventando la stessa cosa, con un miglioramento da parte nostra, sia nell’atteggiamento del pubblico, sia dei locali. Autore: Vittorio Lannutti
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