No, non è ancora tempo per il nuovo album del 10-piece delle meraviglie norvegese. Ma, considerata la stretta località delle loro vecchie uscite discografiche, vogliamo forse perderci questa ristampa a 6 anni dall’originale?
Dall’ascolto di Horntveth e soci si rischia la Jaga-dipendenza, dovreste saperlo. Semmai il concetto di fusion oggi ha un senso, lo si dovrebbe, più che ai mille e uno pur validi sperimentatori di Chicago e dintorni, innanzitutto a loro. Gli unici oggi in grado di svecchiare il jazz e farlo uscire da quel guscio, non solo estetico, fatto di club ostentatamente raffinati, festival monotematici dai rigidissimi criteri di ammissione e atrofizzata capacità/volonta di esplorazione. Guscio reso ancor più forte, settario e autocompiaciuto da una sorta di intoccabilità riconosciutagli in sede “ufficiale”.
Molti dei dischi dei Jagas sono finora usciti su Ninja Tune, fino a prova contraria un’etichetta electro-dance. Hanno suonato, dal vivo e in studio, con i Motorpsycho, fino a prova contraria una rock-band. E hanno, in definitiva, un approccio alla materia jazz decisamente eclettico e “progressista”, che nasce in un contesto accademico, che rispetta e ripassa continuamente la lezione di Coltrane, Coleman, Shepp, ma che è ben consapevole di come il mondo musicale attuale e “vero” non risieda nell’anzidetto guscio, ma negli ampli di una chitarra elettrica o nel monitor di un laptop.
La fusion dei Jaga Jazzist non è quindi solo jazz + rock – operazione in corso di svolgimento da 30 anni e passa – ma coinvolge anche le più moderne istanze sonore di techno, breakbeat, drum’n’bass, secondo quanto ci si può attendere da chi infonde nelle proprie attitudini anche un link coerente alla propria giovane età. E quando questi elementi non convergono nello stesso brano – e difatti resta pur sempre il jazz l’elemento prevalente –, quando è un clarino o una tromba il traino di un brano, è comunque ben percepibile nella musica dei Jaga Jazzist un approccio fortemente dinamico e affermativo di questo superamento dell’odierna stagnazione del jazz, capace di proiettare i lavori dei nostri a un audience rock-oriented, oltre che alla rielaborazione dei remixatori di turno.
Donde allora l’effervescenza dell’iniziale ‘Jaga Ist Zu Hause’, in cui il ritmo spezzato della batteria snida quegli elementi “altri” (come il timido strascico di hammond in chiusura) capaci di distrarre dalla guida melodica operata dal clarinetto; l’aura ambient, evocativa della provenienza nordica dei nostri, di ‘Plym’ e ‘Seems to Me’; la magia, al contempo notturna e spaziale, che la tromba del “guest” Kare Nymrak Jr. conferisce al crescendo, dal finale epico e torrenziale, di ‘Swedish Take-Away’ in versione live (un brano che non vorremmo mai sentir finire); l’approdo in convulsi territori jungle-jazz di ‘Serafin I Jungelen’, la prima delle due bonus-tracks qui presenti, come remixata da Jomba vs. K-Mart & Ravi 97; la solennità prima e le percussive atmosfere quasi guerresche poi della part I della title-track, così come sporcata di fruscii al vinile da Shining nel suo “reworking”, e il lento degrado pianistico verso il silenzio della part II.
Finito. Il problema ora è sfrattare il disco dal lettore…
Autore: Bob Villani