– Premessa
Esistono dischi compiuti, perfetti e non perfettibili, poiché ineccepibili sotto ogni profilo, metastorici, totalizzanti; alcuni di questi, purtroppo, per un destino “ingrato” a essi riservato, non hanno riscosso la dovuta notorietà restando ad appannaggio di un minor pubblico di appassionati e cultori (come esempi esaustivi si potrebbero citare “Spiderland” degli Slint – il più bel disco degli anni novanta e non solo – o il monumentale “Irrlicht” di Klaus Schulze).
Lo scorso anno, ad esempio, si sono celebrati i 50 anni di “The Dark Side Of The Moon” dei Pink Floyd, anniversario che ha avuto risonanza su scala mondiale, mezzo secolo di vita che però è stato nel 2023 anche di altri capolavori quali “Cyborg” del già citato Klaus Schulze, “Fare Forward Voyagers (Soldier’s Choice)” di John Fahey, “Flying Teapot – Radio Gnome Invisible Part 1” dei Gong, “Lark’s “Tongues In Aspic” dei King Crimson …, tutti dischi meritevoli non meno dell’osannato “The Dark Side Of The Moon” di cui, sempre nel 2023, Roger Waters ha fornito la personale versione.
Ebbene, il 26 luglio di quest’anno ricadono i 50 anni di un altro disco, sicuramente tra i meno celebri di cui sopra, ma che a parere di chi scrive, resta il più bel disco “rock” di sempre: “Rock Bottom” di Robert Wyatt.
– Antefatto
Indiscussa icona del Canterbury Sound (la corrente musicale che grazie al suo spiccato ed esatto equilibrio tra eleganza, compostezza, ricerca, sperimentazione e british style, ancor più del tanto – e troppo – celebrato progressive, ha saputo rappresentare l’Inghilterra della fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta; si pensi ai Caravan, con il loro splendido “In the Land of Grey and Pink”, agli Hatfield And The North, ai National Health e – non distanti da loro – agli Henry Cow, che nello storico live “Concerts” ospitarono proprio Wyatt, oltre all’universo dei Gong, ai Khan …), Wyatt (dopo la particolare e interessante esperienza con il Daevid Allen Trio, da citare il loro live del 1963 anche per comprendere come ci fosse chi in quegli anni sperimentasse e osasse ben più di altri “blasonati” conterranei: The Beatles e The Rolling Stones per tutti) dà corpo, dapprima ai The Wilde Flowers, gruppo che, con Hugh Hopper, Richard Sinclair, Brian Hopper, Robert Wyatt e Kevin Ayers, diviene la pietra d’angolo della scena di Canterbury, e successivamente (nell’ordine) ai dadaisti (d’altra parte “Dada Was Here”) e patafisici Soft Machine (come apertamente dichiarato anche in Pataphysical Introduction Pt. 1: “Good evening – or morning. And now we have a choice selection. Of rivmic melodies from the Official Orchestra of the College of Pataphysics” canta il brano), capostipiti del filone jazz/fusion/sperimentale canterburiano e ai più “romantici” Matching Mole.
Come spesso accade, le imprevedibili vie che percorre la vita assumono i caratteri del sorprendente e, al pari di un romanzo ben scritto, riservano a ogni pagina inchiostro segnante, soprattutto nelle pieghe e nelle fratture dell’esistenza; e così, in un crescendo, a ogni separazione, a ogni tragedia è (co)inciso, per Wyatt, uno snodo, umano e artistico.
Congedati i primi due dischi (rispettivamente l’omonimo del 1968 e “Volume Two” del 1969) , con i loro umori “unici” e fuori dagli schemi, i Soft Machine, in formazione con Hugh Hopper al basso, Robert Wyatt alla batteria e voce, Mike Ratledge all’organo e al pianoforte, Elton Dean al sax alto e saxello, Nick Evans al trombone, Jimmy Hastings al flauto e al clarinetto basso, Rab Spall al violino e Lyn Dobson al flauto e sax soprano, virano verso una sperimentazione jazz e danno alle stampe quello che è considerato il loro capolavoro (nonché uno dei più bei dischi di sempre), il doppio LP, con un brano per lato, “Third” del 1970 (devo sul punto dire che per un gusto personale ho sempre amato di più le loro precedenti due pubblicazioni anche per la loro assonanza con quel meraviglioso teatro dell’assurdo di Alfred Jarry, con la sua “scienza delle soluzioni immaginarie”, con il suo “piccolo” capolavoro “Gesta e opinioni del dottor Faustroll, patafisico” e con il suo iconico “Ubu roi”; non a caso in cima ai miei più cari ascolti siede “The Modern Dance” dei Pere Ubu).
In un disco pervaso prevalentemente da una meditata quadratura ora jazz, ora minimalista, ora d’avanguardia, Wyatt irrompe e rompe con la sua “Moon In June”, uno dei punti più alti raggiunti dal rock inglese nel suo essere totale.
Nello stesso anno, mentre i suoi compagni mostrano chiaro l’intento di percorrere le “certe” e “rassicuranti” vie del jazz rock, Wyatt si spinge sino al lato oscuro della sua “luna” e consegna alle stampe il delirante “End Of An Ear” (del 1970), in cui il batterista e cantante dà libero sfogo alla sua creatività, in un electric storm musicale, avvicinando le sue “eiaculazioni” vocali agli studi d’avanguardia delle grandi vocalist americane Meredith Monk e Joan LaBarbara (“Las Vegas Tango” su tutte).
Passata la tempesta di “End Of An Ear” e chiusa l’esperienza con i Soft Machine, Wyatt, con Phil Miller, Bill McCormick e David Sinclair (poi sostituito da Dave McRae), forma i Matching Mole, gruppo che media con maggior pacatezza le esperienze pregresse di Wyatt e dei suoi nuovi compagni, disegnando tremanti acquarelli dal gusto canterburiano (“Caroline” o “Signed Curtain” dal disco omonimo del 1972).
Ma ecco che (come già detto in precedenza) il libro della vita, come in un romanzo, scrive snodi inaspettati.
È il 1 giugno 1973 e durante la festa di compleanno di Gilli Smyth (dei Gong) e Lady June, Wyatt cade dal terzo piano, rimanendo paralizzato dalla cintola in giù, incidente che lo costringe alla sedia a rotelle: “on 1 June 1973, during a party for Gong’s Gilli Smyth and June Campbell Cramer (also known as Lady June) at the latter’s Maida Vale home, an inebriated Wyatt fell from a fourth-floor window. He was paralysed from the waist down and consequently uses a wheelchair” (si legge sul sito https://differenteverytime.com/biography/ consultato il 12 luglio 2024).
Per un’artista dalla profonda umanità, sensibilità e capacità espressiva, quella tragedia si trasforma nel seme dal quale nascerà uno dei capolavori assoluti della musica di tutti i tempi “Rock Bottom” del 1974.
– Rock Bottom
“Rock Bottom”, contenente materiale in parte scritto prima dell’incidente (“The album, the title of which was an oblique reference to his paraplegia, was largely composed prior to Wyatt’s accident” – sempre dal sito https://differenteverytime.com/biography/ consultato il 12 luglio 2024), è realizzato con tantissimi musicisti/amici (Fred Frith alla viola, Hugh Hopper e Richard Sinclair al basso, Gary Windo al clarinetto, Mike Oldfield alla chitarra, Mongezi Feza alla tromba, Ivor Cutler alla concertina e Nick Mason come produttore) e s’impone come summa di ogni concreta astrazione, perfetta nella sua rilassata tensione, perennemente fragile nella sua esatta compattezza e solidità.
“Rock Bottom” è un’opera a parte, come già detto è un’anabasi verso gli intricati dedali della sfera emozionale interiore, sia essa di natura sentimentale che psichica, un turbinoso flusso di coscienza, una metafora marina di discesa verso il fondo e di risalita in superficie, in cui melodie sghembe e a tratti strazianti mascherano infiniti precipizi scoscesi in cui le progressioni armoniche e vocali (quella di Wyatt è, a parere di chi scrive, tra le più belle voci maschili di sempre) zigzagano patafisici umori.
Apre il disco la splendida “Sea Song” (“Your lunacy fits neatly with my own/My very own/We’re not alone”) che immerge l’orecchio nei fondali ovattati di un lento maelstrom che tutto inghiotte e oblia, nell’incanto delle sirene dei vocalizzi che, dalla seconda metà del pezzo, portano l’ascoltatore al naufragio sulle misteriose scogliere di “Last Straw”, nei cui anfratti si annidano magici epilettici e irrequieti esseri.
Congeda il lato A del disco il muro sonoro da free jazz dadaista di “Little Red Riding Hood Hit the Road”, un brano sotto la cui superficie quasi noise dei fiati, come disegnata oltre lo strato di apparenza, declama un canto dal grande lirismo narrativo che fonde e si perde nel crescendo da drone strumentale di chiusura.
Il lato B è aperto dal “Alifib”, il cui ritmo è scandito da un respiro/voce, tempo su cui si snodano in arabeschi, tastiere, il basso e la chitarra, prima che il canto non si faccia preghiera disperata e dolcemente struggente e che il tutto confluisca, per essere fagocitato, nella teatrale “Alife” (dedica alla moglie di Wyatt), giano bifronte di “Alifib”.
Come in una maschera di Gemini, infatti, se in “Alifib” aleggia una rassegnazione pacata, in “Alfie” le nevrosi del clarinetto e il recitato di voce da savio folle vomitano una più dura presa di coscienza dell’uomo e della sua condizione di essere conteso tra la voglia di indipendenza e la necessità di dipendere.
“Little Red Robin Hood” dà commiato a “Rock Bottom” e, nella sua dicotomia dei distinti momenti (l’iniziale e il finale), spiega al mondo cosa sarebbe dovuto essere il rock progressivo sinfonico, con la perfetta sintesi tra la densità sonora (la prima parte) e il recitato di Cutler da camera teutonica dissonante per archi dispersi (la seconda parte); sempre nel 1974, precisamente l’8 settembre, Robert Wyatt sarà dal vivo al Theatre Royal Drury Lane con Dave Stewart, Laurie Allan, Hugh Hopper, Mongezi Feza, Gary Windo, Mike Oldfield, Nick Mason, Fred Frith, Julie Tippetts e Ivor Cutler suonando “Rock Bottom” dal vivo e proponendone una versione più “diretta” e “ruvida” come ben testimoniano i 9 minuti si “Sea Song” (va detto ancora che nel 1974 Wyatt darà voce speciale a “Calyx” nel bell’omonimo disco degli Hatfield And The North, pubblicherà il singolo/cover “I’M Beliver” – che comparirà anche nel citato live al Royal Drury – e prenderà parte al concerto al Rainbow Theatre di Londra, immortalato nel famoso “June 1, 1974” album live a nome John Cale, Kevin Ayers, Nico e Brian Eno).
Se la voce di Wyatt, con la sua morbida fragilità, sembra spingersi sempre verso un punto ultimo di rottura, per restare invece inspiegabilmente integra, “Rock Bottom” è un punto fermo, saldo e granitico nell’universo musicale del secondo novecento.
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