Più zampilla olio nero dalla pancia del Wisconsin più il sangue di Daniel Plainview imputridisce. Più la trivella scende in profondità, più Daniel Day Lewis, nei panni dell’omonimo Plainview, esce pazzo.
La metafora feroce che il petroliere si porta dietro – il potere è inversamente proporzionale alla sanità mentale -attraversa il secolo breve e lo inzuppa di calvinismo d’accatto. Anderson, che ha scritto anche la storia di questo film oltre a curarne la struggente regia, ne mitizza le sorti, mischiando il rigore pantografico di Kubrik alle sinestesie di Tom Tykwer e finanche all’elegia epica dello Scorsese inamidato di “The Aviator”.
Il capace regista americano, uno dei più integri della generazione “Sundance”, dopo la prima ora di film interrompe il romanzo per immagini che sta narrando e manda avanti Daniel Plainview, uomo solo sulla rotta del Ventesimo secolo, 100 anni di cupidigia, appena iniziati. Suo figlio è diventato disabile, e i soldi non possono guarirlo, mentre gli affari del petroliere si moltiplicano di pari passo coi nemici. Ci troviamo, piccini piccini, al cospetto di un pioniere, perfetto one-dimensional-man in sedici noni, drogato fatto dalla febbre dell’oro (nero). Tutto è ciclico in queste due ore di pellicola ma non quel ghigno sul viso di DDLewis, che procede scena dopo scena a deformarsi, maturando l’idea del film come un kiwi, peloso fuori e polposo dentro.
E’ Plainview-Lewis l’artefice del destino di Anderson, non viceversa. Gli succede sempre così a Paul Thomas: anche in “Magnolia” cominciò a farsi inghiottire nel vortice del sentire da Tom Cruise, e così nell’affresco decadente di “Boogie Nights”, dove la macchina da presa divenne un grosso fallo di 40 centimetri, incontrollabile.
In verità è anche Daniel Day Lewis che sa bene trascinare per i capelli il regista. Lewis è fuori di sé, alla fine sarà sangue. E per DD, meritato Oscar.
Autore: Alessandro Chetta