Halston è una leggenda. Su di lui sono disponibili un po’ di documentari (uno bello, di Frédéric Tcheng presentato al Tribeca nel 2019) e una manciata di libri, perlopiù fotografici. Quello di Steven Gaines, Simply Halston: The Untold Story, è una biografia di 360 pagine scritta nel 1991 in cui c’è la presunta storia vera di Halston, il sarto che prima inventò se stesso e poi la moda americana. O viceversa, non ha importanza. Come non ha importanza sapere se la storia di Halston, miniserie in 5 episodi prodotta per Netflix da Ryan Murphy (lo stesso che in ambito fashion aveva realizzato American Crime Story 2: The Assassination of Gianni Versace) sia vera oppure no. La famiglia dello stilista alla vigilia dell’uscita l’ha bollata come non autorizzata e sensazionalista. La stampa di settore l’ha liquidata come imprecisa, il resto si è diviso ma propende per un no. Per noi è un sì e qui spieghiamo perché.
Un’ affascinante opera di finzione
Quella su Halston è un’opera di finzione. Nessuno si aspettava da un biopic televisivo accuratezza, ricerca da fonti accreditate, precisione filologica, a meno di peccare d’ingenuità. Era stato così per L’assassinio di Gianni Versace (9 episodi per la tv, anche questa serie respinta con decisione dalla famiglia) e Halston non prometteva niente di diverso. Prodotto di buona fattura, dalla fotografia cromaticamente interessante, Halston restituisce allo spettatore esattamente quello per cui ha pagato: interpreti di livello, musica da sballo, panorami incredibili su Manhattan dalle vetrate dell’Olympic Tower. Nessuno si aspettava di vedere indossati capi d’archivio: i modelli realizzati dalla costumista Jeriana San Juan sono ben lontani dall’alta moda dello stilista degli anni ’60 e ’70 e più vicini a quelli dei cataloghi delle vendite per corrispondenza della stessa epoca. Ma anche la Los Angeles di Hollywood, 7 puntate per Netflix nel 2020, era solo una versione rutilante della “Land of dreams”. I prodotti di Ryan Murphy non smettono un secondo di rispondere a questa regola onesta: affascinare e conquistare e nulla più. Col grande pregio di farci riscoprire di nuovo certe storie sepolte nel tempo. Come questa di Roy Halston Frowich.
Una grande storia americana
Murphy, da vero continuatore della tradizione del racconto americano sullo schermo, ha la passione per i personaggi drammatici, e Roy Halston, il ragazzino dell’Indiana che fabbricava cappellini per la madre e finì per vestire le donne, gli uomini e le case degli Stati Uniti, è degno di attenzione in questo senso.
Personaggio larger than life, il suo posto è vicino ai pionieri che hanno fatto la storia del Paese perché vestì le donne con uno spirito mai visto prima regnando su Manhattan fino a vederla sgretolare sotto i sui piedi. La sua era un’ambizione pacchiana, più grande del Paese che voleva vestire. Una storia di eccessi, ascesa e caduta, rise and fall, che solo il cinema americano può raccontare.
Perché concentrarsi sulla parabola discendente – ha obiettato qualcuno – sulla crisi, sui debiti, sui vizi, sulle liti, sulla malattia, le frequentazioni, quando Halston era invece un affascinante seduttore, un eccentrico genio, un lavoratore instancabile, un uomo affettuoso e capace di umanità. La tragedia della perdita, della fama, del denaro, degli amici, dell’amore e infine del nome stesso (lo stilista fu estromesso dall’azienda con un accordo nel 1984) evidenzia ancora di più il lato migliore dell’uomo.
Da sempre il cinema americano privilegia il racconto dei vincitori solo quando si dimostrano perdenti. Il lusso non è interessante senza la decadenza. A chi interessa se il personaggio è reale o immaginario? Chi fa caso al tonfo quando siamo abbagliati dal racconto della grandezza? Roy Halston è Jay Gatsby, è Charles Foster Keane, è Howard Hughes e molti altri. Meglio vestito, certo.
Il revival dell’American Fashion
Halston ha inventato l’American Fashion, con lui negli Stati Uniti c’è stato il primo vero confronto con la moda del resto del mondo (cioè con i grandi d’Europa), dopo di lui c’è stato un Maestro da emulare, lo ammirò più di tutti Tom Ford. La mostra del MET di New York curata dal Costume Institute – parte a settembre e continuerà nel 2022 – quest’anno è dedicata all’identità sartoriale americana dalle origini ai giorni nostri: Halston, col suo glamour luxury, sarà uno dei protagonisti, casualmente, o forse no.
Roy Halston amava l’America e gli americani al punto, secondo Lesley Frowick, nipote dello stilista e direttore degli archivi Halston, da disegnare una linea low cost per i grandi magazzini JC Penney (una mossa che nella serie viene invece descritta come uno dei passi falsi che distrussero la carriera del designer). A luglio esce “Halston X Netflix”, una capsule di dieci look basati su quelli dello show ideata da Roberto Rodriguez, direttore creativo del brand, con la costumista della serie. Complessivamente, anche l’Halston revival sembra concorrere a una spinta della moda made in USA appannata dalla crisi della pandemia, una battaglia globale che si combatte con la creatività. Siamo curiosi di vedere le prossime mosse.
autrice: Vittoria Romagnuolo