Per chiamarsi “Unicorni” dovevano essere per forza quanto meno dei tipi fantasiosi. Se poi metti che per il loro secondo LP hanno scelto un titolo quanto meno “curioso”, non puoi non fare a meno di immaginarteli come una combriccola di ragazzi un po’ fuori e parecchio freak, questi canadesi qui.
Suonano pop schizzato, mischiando chitarre e tastierine e sintetizzatori che puoi benissimo immaginarti con i tasti mancanti e i pezzi attaccati con lo scotch. T’inondano di melodie trasandate e storte, eppure freschissime, spontanee, naturali.
Suonano come dei Flaming Lips tornati alle scuole elementari, come dei Pavement convertiti alla causa dell’Elephant 6 collective, come una jam session tra Beck e i Grandaddy super-storditi da cannabis extra-strong. Ingenui e coloratissimi, ci regalano uno dei dischi indie-rock più gradevoli sentiti negli ultimi mesi. Una band che, pur rimanendo entro ambiti tutto sommato riconoscibili ed utilizzando linguaggi sonori in fin dei conti abbondantemente esplorati, possiede quel “qualcosa in più” che li distingue dalla massa di gruppi a loro affini, quel “tocco magico” che li rende unici. Quel “quid” che – in fondo – distingue un unicorno da un normalissimo cavallo.
Autore: Daniele Lama