L’indie rock degli ultimi venti anni ha avuto nei Belle and Sebastian l’incarnazione della poetica romantica e sognatrice, degna erede di quell’eredità artistica lasciata dagli Smiths.
Il loro ultimo lavoro “Girls in peacetime want to dance”, come lo stesso titolo può farci immaginare, baratta parte dell’atmosfera romantica e delicata dei loro primi lavori per una sorprendente quanto ben riuscita dimensione da dancefloor.
Dopo “Write About Love” (2010), nessun addetto ai lavori si aspettava lo stesso stile che li ha contraddistinti dagli esordi nel lontano ‘96, né quello della band scozzese è il genere di pubblico restio all’innovazione, ma un album così, per dirla con Bob Stanley (Saint Etienne), non certo uno sprovveduto quanto a musica dance, “è destinato a far alzare un sopracciglio a qualcuno”.
L’incipit del disco, “Nobody’s Empire”, gioca molto sulle corde dell’emotività: il talentuoso cantante della band, Stuart Murdoch, è stato afflitto, ai tempi degli studi universitari, dalla “sindrome da stanchezza cronica” e ci racconta il suo malessere derivante dalla consapevolezza che non avrebbe mai avuto una famiglia o il successo. Naturalmente le cose non andarono così. Adesso il nostro è felicemente sposato e il gruppo gode di ottima salute.
Una sorta di “processo catartico” che si é realizzato scrivendo per anni canzoni magnifiche sulla depressione e sulla solitudine con un approccio cantautorale ed uno stile inconfondibile.
Partito come progetto universitario, è ormai arrivato al nono album in studio, il sesto realizzato dall’americana Matador Records, e i riconoscimenti in questi anni non si contano più.
“If You’re Feeling Sinister” è oggi ritenuto una pietra miliare sia per le capacità espressive del gruppo, che per la loro attitudine a far sognare intere generazioni di fan con testi immaginifici e melodie confortevoli.
In “Girls in peacetime want to dance”, la malinconia di cui si facevano portatori è stata, invece, perfettamente trasposta in una nuova veste synth-pop, dal beat martellante ma dai testi sofisticati. Esempi di quest’atmosfera si possono trovare in “The party line”, primo singolo estratto dall’album, con la sua ritmica penetrante ben accompagnata dalla voce di Murdoch mai così simile, come impostazione, a quella di Neil Tennan (Pet Shop Boys).
Ciò che in questo album rimane del sound dei primi è circoscritto quasi esclusivamente a “The Cat with the cream” e “Ever had a little faith?”. Entrambi ricalcano lo stile degli esordi, o almeno ci provano, ma nonostante la delicatezza nel cantato di Murdoch ed il supporto degli archi, non si percepisce più quella spontaneità emotiva che tanto aveva caraterizzato il gruppo. I brani in cui la band doveva essere più a proprio agio, infatti, per ritmo e melodie sembrano invece quasi degli intrusi in un album che richiama chiaramente gli anni ‘80. Le sonorità di quel periodo, infatti, riecheggiano con non poca maestria in brani come “Enter Sylvia Plath” o “Play for today”: la prima caratterizzata da un ritmo da club party, assoluta novità nella vasta discografia dei nostri; la seconda vanta l’accompagnamento alla voce di Dee Dee Penny (Dum Dum Girls) a ingentilire una melodia già molto delicata.
Il resto dell’album, invece, è una sequenza di tentativi più o meno riusciti, di adattare polka, dance, folk, funk, a melodie simil-pop.
Il rischio di “Girls in peacetime want to dance” è scadere nel ‘già sentito’, nell’essere troppo “volutamente pop”, come ammissione dello stesso frontman. Non è un delitto voler essere pop, nè è da biasimare la volontà giovanile di Murdoch di emulare Carole King, ma i tentativi di strizzare l’occhio a musica più melodica e orecchiabile la band li aveva già fatti e con risultati più organici e degni di nota con album come “Dear Catastrophe Waitress” e “The Life Pursuit”.
Le dodici tracce costituiscono comunque più di un’ora di godibile folk-pop dai riconoscibili tratti nordeuropei che però ha tutta l’aria di essere poco più che un esercizio di stile in cui i nostri artisti scozzesi ci dimostrano il loro talento e di essere a loro agio anche con altri ritmi. Quello che manca è un’anima, l’elemento che rende il sound di un album unico, eccezionale, riconoscibile in qualsiasi battuta.
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autore: Luigi Oliviero