di Radu Mihaleanu, con Aleksei Guskov, Mélanie Laurent, Dmitri Nazarov, Valeri Barinov
Radunate tutte le belle orchestrine dei film di marca balcanica e slava, azzimatele in tight e che il concerto cominci. Tchaijkowsky, l’immenso, prende la scena e un ensemble che si spaccia per il mitico Bolshoi di Mosca diffonde la magia. Agli oboe, ai contrabbassi, ai timpani ci sono zingarelli, rabbini, punkabbestia, ubriaconi: eppure il mio Grosso grasso Tchaijkowsky viene fuori come rugiada cristallina.
Al regista romeno dal nome che intorcina la lingua – Radu Mihaleanu, su, ripetetelo tutto d’un fiato – piace falsificare le carte, barare con la storia. Lo ha fatto – alla grande – in “Train de vie”. Lo ripete nel Concerto dopo che un altro grande baro, Quentin Tarantino, pochi mesi orsono, ha rivoltato la guerra dei nazisti come un calzino. Ci piacciono i registi della mistificazione. Il cinema è falsità, sospensione dell’incredulità. In questo caso con stigma di rivalsa sociale anti-regime (sovietico), cifra praticamente di tutti gli arrembanti registi dell’Est Europa (Mungiu, Florin Serban, ecc.). Quindi può accadere che 50 russi squinternati, mezzi ebrei, mezzi rom, per lo più virtuosisti da banda di paese, si esibiscano nella sofisticata Parigi. Su tutto, come corona di gigli, gli occhi color cascata di Melanie Laurent (la Shoshanna di Inglorious basterds!), protagonista della parte melò che il regista impasta al film corale, con qualche eccesso zuccherino. Invece il menage “orchestrale” della pellicola, la sfilza di figurine in cerca d’autore – dal comunista combattente allo tzigano che tarocca i passaporti – suona pressoché perfetta.
Autore: Alessandro Chetta