Credevate che ci si fosse dimenticati di quei “Cinque Piccoli Pezzi per Gruppo con Titolo”? Sono passati 4 anni e centinaia di ascolti da un disco capace di innescare senza indugio alcuno la piastra di registrazione di chi scrive – e parliamo di poco più di un demo – ma la memoria è ancora fresca. Semmai è rimasto spseso il dubbio che per un disco così riuscito fosse stato speso tutto – in termini di ispirazione – fino al punto da rendere necessaria una lunga “ricarica creativa”
E’ anche probabile che sia così. Ma gli interessi del quartetto cesenate da allora hanno spaziato anche nel teatro di sperimentazione (laddove ora sono tornati nel “recinto” più strettamente musicale con l’allestimento dell’Itinerario festival con Gatto Ciliegia e Sedia), e comunque un sound così unico nel panorama anche extra-nazionale non si manifesta in quattro e quattr’otto in un disco. Che finalmente arriva, con sorprendente stampa Snowdonia, da lodare, stavolta, quanto meno per aver preceduto tutti gli altri a occuparsi di una band così brillante – o, ipotesi pessimistica sullo stato della nostrana industria, per essere stata l’unica a manifestare interesse.
Pirandelliano nel titolo come il suo predecessore, “13 Piccoli Singoli Radiofonici” è un altro “tentativo mancato” – nella nostra prospettiva – di attribuire al sound degli Aidoru una definizione univoca, visto che anche stavolta sono almeno tre le direttrici seguite: quella hard-experimental, quella – più tipizzata – post-rock, e quella che prende le mosse dagli esprimenti “fono-gravitazionali” di Robert Wyatt – e, allargando la visuale, da un certo cantautorato sghembo e avanguardistico, non esente dal ricorso ad una “effettistica” tanto digitale che analogica.
Forse è quello del barbuto ex-batterista dei Soft Machine l’ascendente più evidente, vuoi per la scarsità di analoghe fattispecie (chi mai si azzarda ad una cosa così rischiosa e impegnativa?), vuoi per il peso che assume in proporzione maggiore all’album predecessore, vuoi per quel velo di tristezza, quasi di rassegnazione, che sembra filtrare tutto il “fluido sonoro”. Ma il discorso si complica, tanto per la formazione musicale classica di alcuni quanto per l’intersezione reciproca cui tali direttrici vanno soggette. Il primo e più probabile esito di un simile scenario compositivo sembrerebbe essere quello di un disco eterogeneo e carente d’unitarietà, ma così non è: gli Aidoru riescono a racchiudere tutto questo bell’ambaradan sotto un comune denominatore, di propria esclusiva fabbricazione e personalità, che – è questo il bello – appariva come pienamente operante già dai tempi dei “Cinque Piccoli Pezzi”. E non parliamo di vecchie volpi di recording studio e strumentazione. O forse (senza saperlo) sì? Va’ acchiappa te…
Autore: Roberto Villani