In occasione dell’ultimo lavoro live di Gianmaria Testa, il cantautore piemontese ci ha dato la possibilità di intervistarlo e di chiedergli più precisamente le ragioni di un album come Men at Work, un lavoro di ben 23 canzoni che percorrono una carriera ventennale, un doppio cd live che racconta di una lunga tournée in Germania realizzata con musicisti straordinari e complici, un DVD che è la sintesi di un concerto registrato alle OGR di Torino, là dove una volta si riparavano le vaporiere.
In Men at Work ci sono brani che risentono incredibilmente delle intemperie della crisi, tratteggiano stati d’animo comuni e provano ad indicare in più di un’occasione una via d’uscita. Lo incontro in una libreria di Milano per un suo showcase e dopo la performance in fretta e furia prendiamo accordi per sentirci via telefono – Gianmaria odia discutere via mail -. Qualche giorno dopo, presto fatto, lo chiamo e l’emozione da fan è tanta oltre che il desiderio di inondarlo di domande.
Devo dire che un lavoro come Men at work, me lo aspettavo da tempo, ma non arrivava mai! Da che desiderio è nato?
Solo dal vivo, mio unico album live uscito cinque anni fa, fu una cosa casuale; il teatro studio di Roma, dove quel concerto si tenne, registra credo quasi sempre ogni artista che sale sul palco, mi fecero sentire le registrazioni della mia performance e mi sembrarono ottime, dopodichè decisi di farne un album. Men at work è stato voluto perchè racconta di un tour lungo, pieno di emozioni, serate e situazioni indimenticabili e poi testimonia il legame tra me e i tre musicisti con cui ho vissuto questa bellissima esperienza.
E allora nominiamoli: Giancarlo Bianchetti alle chitarre, Nicola Negrini ai bassi e Philippe Garcia alla batteria. Che rapporto hai avuto con loro durante il tour?
Bellissimo, mi ritengo fortunato di averli come amici e di aver condiviso questi mesi di concerti con loro.
Ti ho immaginato nei vari auditorium europei con gente che non capiva bene la tua lingua, le tue pause parlate e magari sfuggiva loro la forza dell’onestà, della purezza. Come ti sei trovato a suonare di fronte ad un pubblico non italiano?
Avendo esperienza di concerti all’estero, in particolare in Francia, sono abituato a questo pericolo, ma credo sia stato tutto più facile del previsto questa volta, grazie all’aiuto di un traduttore. In verità devo dire che le persone incontrate lungo questa strada ci hanno ascoltato con grande attenzione, la musica ha fatto il resto, ha stretto in una mano le differenze.
Anni fa dichiarasti un tuo amore per le sculture di Giacometti e per la poesia di Ungaretti. Hai mai pensato di avere un modo di raccontare squisitamente calviniano?
Diciamo, sono affascinato da chi punta al cuore delle cose liberandole dalle inezie. I nomi che tu citi hanno segnato un secolo e solo a pronunciarli si crea un vortice, posso solo confessarti che ho sempre desiderato fare lo scrittore e mi è capitato di fare il cantante.
E del canto urlato che mi racconti? Raramente ti si sente a voce alta, spesso ti preoccupi di utilizzarla in modo soffuso, quasi morbidamente. In cordiali saluti si sente invece una rabbia gridata e sottolineata dal rumorismo di Bianchetti. Questo periodo infelice che stiamo vivendo ha cambiato il tuo approccio con la scrittura?
Non c’è niente di più terribile della perdita del lavoro, Cordiali saluti parla di questo, a volte il tema trattato credo meriti un vestito adeguato e in questo Giancarlo è stato perfetto. Penso che oggi sia cambiata l’etica dello scrivere, ma c’è sempre un rapporto pubblico che in periodi particolari della storia si è costretti a tirar fuori per farsi sentire.
Ho sempre pensato che i tuoi lavori fossero il frutto di esperienze sempre diverse. Mirabassi e Giovannone sono compagni di viaggio da anni, ma penso anche a Tesi, Mesolella, Marcotulli, Pietropaoli, Fresu che di tanto in tanto hanno fatto capolino nella tua vita d’artista. Chi ha fatto freccia?
Sarà banale dirlo, ma proprio tutti. Tutti mi hanno insegnato la grandiosità del jazz ad esempio, il saper entrare in una canzone per prendersi un piccolo spazio o la capacità di stupire con la semplicità. Non riesco ad escludere nessuno.
E hai qualche tecnica per lasciare spazio ai sensi, tra una strofa e l’altra?
Non sono uno specialista della musica, rubo dei colori che mi attraggono e in questo ho avuto la fortuna di lavorare con musicisti in grado di ottenere ricorsi tra parola e musica, il mio lavoro sta nel ricostruire storie che abbiano un messaggio, se poi questo messaggio viaggia più serenamente se trasportato da una musica adeguata allora l’obiettivo è preso.
Ultimamente ti ho visto in azione con Giuseppe Battiston in una bellissima rivisitazione di Italy. Pascoli è una tua connessione linguistica: poesie come emigranti nella luna o nannetto ricordano alcune tue strofe presenti in Da questa parte del mare. Dove viaggia la mente quando pensi ai migranti?
Mi stupisco di quanta gente nel 2013 venga a sentire un reading su un testo del 1904 di un autore che è nato nell’800. È evidente che c’è qualcosa che non va e che quel testo che raccontava di un’altra Italia al di fuori dell’Italia, si riveli oggi attualissmo. Mi sconforta come sempre riconoscere con quanta rapidità tendiamo a dimenticare il nostro passato e come i ruoli spesso si invertano ora che siamo noi ad accogliere e non ad essere accolti.
Qualche giorno fa in Feltrinelli a Milano durante lo showcase hai parlato del tuo ex lavoro da ferroviere e le tue parole mi hanno colpito, mi ha fatto specie lo sfogo teso a chiarire certe perplessità che chi ti segue spesso tira fuori. Cosa ha significato per te lavorare in ferrovia?
Mi sono licenziato nel 2007 e non è stata una scelta facile. Per me che non sognavo di fare il capostazione da piccolo, è stata l’esperienza di una vita e lasciarla è stato un brutto colpo, ha voluto significare tanto.
È oggi che te ne sei andato come ti sembra quel mondo dal di fuori?
Quando i viaggiatori sono diventati clienti, capii che l’idea di servizio pubblico era finita e oggi, al di là delle posizioni politiche che ognuno di noi può assumere, siamo al limite dell’immoralità. La questione non è di pertinenza solo delle ferrovie, stiamo assistendo alla crisi di tutto un occidente che non riesce a scrollarsi di dosso il secolo passato e pretende di rinnovarsi quando rischia di girare nel verso contrario la ruota del tempo.
C’è da chiedersi dove può andare la musica oggi, io me lo chiedo spesso perchè è un po’ come chiedersi dove andrà la vita in futuro. Poi indago il tuo chisciottimismo, pieno di speranza e fatica, sempre in Feltrinelli l’altro giorno hai detto che possiamo superare la crisi rimboccandoci le maniche tutti insieme in un lavoro collettivo, ma riusciremo mai a superare le nostre paure?
Io parto dal presupposto che nessuno deve starsi zitto di fronte alle ingiustizie, ho imparato a dire di no col tempo e non è facile, ma credo possa essere il punto di partenza di questo nuovo secolo che non sa da dove iniziare. Siamo noi che possiamo dare una rotta e il chisciottimismo è l’idea magari utopica che chi va oltre le sconfitte per raggiungere gli obiettivi prefissi possa ritenersi invincibile dinanzi alla storia.
Il mondo della musica in Italia…che ne pensi dei mille festival italiani?
Nel momento della teorica massima per cui tutto è lecito, passa sempre quello che gli altri vogliono far sentire. Non c’è più lo spazio che chi dovrebbe creare non può o forse non vuole realizzare. Sui tanti eventi festivalieri posso dire che sono interessantissimi meltin’pot, ma che spesso attirano solo certi livelli di fruizione. Il lato negativo è che queste situazioni non diventano movimento e non ci sottraggono alla quotidianità, alla banalità che ogni giorno ci tartassa.
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autore: Christian Panzano