Piccole etichette crescono. A dimostrazione – se mai ve ne fosse bisogno – della poca lungimiranza delle majors italiane, la toscana Raving Records, con all’attivo una sola compilation, sforna uno dei dischi più di presa che mi sia capitato di ascoltare di recente. Formatisi ufficialmente a Bologna nel corso del 2000, i Caboto, dopo un breve rodaggio, si fanno subito notare con il primo “Nauta“, che raccoglie critiche favorevoli persino oltremanica, ma è con la seconda prova sulla lunga distanza che raggiungono il sublime.
Non si può non amare un album che rispolvera la Canterbury degli anni ’70, quella dei purtroppo sottovalutati Soft Machine, per intenderci, e ce la restituisce in tutto il suo eclettico ed elettrico splendore, con nove strumentali che, pur conservando memoria del passato, gettano più di uno sguardo su ciò che è ancora di là da venire (‘Pharoah’, ‘Music from a Further Door’). Echi prog e galoppate free, bassi pulsanti e tastiere vintage si annodano e snodano in rapide sequenze barrettiane, colonna sonora ideale di un documentario sugli effetti benefici della ganja; e su tutto, a ricamare, il sax, a tratti leggero, a tratti nervoso, di Alessio Crotti.
Jazz o, come lo definiscono loro, quasi-jazz, cinematico, nervoso? Non lo so, ma che stile, ragazzi! In 40 minuti i Caboto realizzano uno dei miei desideri più reconditi: un viaggio a tre fra Fripp, Wyatt e Coleman, un’esplorazione visionaria di terre ormai dimenticate. Da allucinazioni. E da possedere.
Autore: Andrea Romito