Nella musica americana contemporanea il folk è forse l’unico genere che ha saputo rinnovarsi senza rinnegare la tradizione. Del resto nessuna entità può dirsi moderna se non si relaziona con le sue radici. Altro suo evidente merito è quello di aver dato un ruolo protagonista alle donne, e questo è evidente a tutti. Sempre più signore infatti siedono al centro di un palcoscenico solo con chitarra e cuore. Se poi si fanno accompagnare anche da illustri personaggi, come stasera, allora bisogna fare delle distinzioni in quest’ormai saturo calderone approssimativamente definito ‘gotica americana’, area che si vorrebbe riservare a tutti quei musicisti con problemi di anima che usciti dalla penombra rappresentano acusticamente i loro drammi. Questo è anche il background della nostra Nina Nastasia, con una importante differenza: ella non trattiene la sua emotività – qualunque essa sia – cantandosi addosso come spesso succede ad una Cat Power o a una Scout Niblett (spesso questi personaggi, sebbene molto poetici, lirici, sembrano voler accentuare in tal modo l’idea di incomunicabilità che vogliono trasmettere con la loro arte). La timida Nina è invece sicura nelle dita che arpeggiano delicate melodie in minore e decisa nella voce che non teme di essere anche aperta e soave (qui è più vicina a Julie Doiron, Shannon Wright e forse a una Paula Frazer meno barocca); per questo sembra più vera nelle storie che racconta. Gli illustri personaggi sono la batteria dei Dirty Three Jim White, l’australiano dagli occhi di ghiaccio che ha suonato nell’ultimo album della nostra, Run to Ruin, e la accompagna in questo tour, trasformando i brani in metafisiche processioni oltre a Stephen Day e Dylan Wilemsa, minisezione d’archi che si espande in spazi interiori e apre porte nascoste perdendo le strade del folk inizialmente intraprese. Nina termina la sua esibizione con diversi bis e ringraziando i presenti, a malapena una trentina.
Autore: A.Giulio Magliulo