A volte la prolificità gioca brutti scherzi, ne sa qualcosa il cineasta sudcoreano Kim Ki-Duk che con “Time” ha trasformato il suo stile con esiti non sempre pregevoli. Le recenti opere del regista orientale hanno goduto di un grande consenso tra il pubblico occidentale nonostante l’inflazione di titoli: negli ultimi tre anni ben cinque film portano la sua firma. Ma finchè c’è stata l’ispirazione la “Ki-Duk Factory” è riuscita ad inanellare opere di una fattura certosina, testimonianze inequivocabili di un immaginario autoriale piuttosto composito ed intrigante. Non si può dire lo stesso della sua ultima fatica che sfoggia il titolo impegnativo di Tempo. Se in “Ferro 3” il protagonista non proferiva parola, qui la sceneggiatura sfoggia un numero considerevole di corposi dialoghi bizzosi. L’assunto di base riguarda l’impassibilità delle ore che passano minacciando le dinamiche amorose di due giovani amanti, Seh-hee e Ji-woo. “Voglio porre a due innamorati una domanda, una domanda assurda”. Nella sua assurdità questa vicenda racconta la vanità dei rapporti umani con piglio paradossale e volutamente improbabile. Ma nessuno spettatore ben allenato alle opere di Ki-Duk si aspetterebbe incastri di facile lettura o snodi narrativi realistici, perchè la sua cinematografia è poco “attenta” agli aspetti più verosimili che un film può presentare. Anche l’inveterata dedizione al silenzio assoluto che ha caratterizzato buona parte della produzione del regista rappresenta una concezione granitica della settima arte, in cui prevale il versante, per mutuare una sua espressione, della “assurdità”. I due personaggi portanti di “Time” impersonano queste idee, nonostante gli accenti dell’autore qui si siano rinnovati grazie ad una scelta differente dell’intreccio rispetto ai progetti precedenti. La parola e il dialogo vengono ammessi dall’autore a patto che subiscano l’esasperazione della diegesi, che tradiscano il loro ruolo ordinario: perdono significato perchè si tramutano in irate imprecazioni senza grande rilevanza narrativa. Quello che più affascina del film è l’impatto con la parafrasi del dubbio, del sospetto che ruota attorno al baricentro della trama senza soluzione di continuità. Le carenze del racconto sono dovute ad un eccessivo ricorso all’esplicito e al diretto, mentre la trama abbastanza banale avrebbe potuto nutrirsi di maggiori allusioni, magari facendo ricorso ad una forma ellittica di narrazione. Queste mancanze non sottraggono alla pellicola un interesse che scaturisce al cospetto del grondante simbolismo metropolitano. Gli ambienti presentati sono case ipertecnologizzate dotate di accessori superpatinati, ambienti lindi e asettici nella loro modernità: il film fornisce squarci esistenziali di una incipiente globalizzazione orientale. Come il tema predominante della chirurgia plastica che non è un espediente furbesco, ma un intelligente riferimento al rapporto eterno tra uomo e maschera vissuto in chiave classica e postmoderna al contempo. Per questo “Time” non è un sequel orientale di “Se mi lasci ti cancello” che si sarebbe potuto chiamare “Se mi lasci mi cancello”, bensì una riedizione del film di Gondry in chiave drammatica e meno surreale. I due film condividono la struttura circolare che nel caso americano è molto più giustificata (e banale), ma l’opera di Ki-Duk si avvale di atmosfere significative e ricercate. Il cineasta sudcoreano traccia una mappa dell’identità umana, senza occultare un moderato rimando alla viseità deleuziana.
Autore: di Roberto Urbani