L’Islanda e in generale la penisola scandinava non smette di sfornare novità e talenti. Questa volta è il turno di Samaris, prima, omonima release della giovane band islandese adottata dalla sempre attenta etichetta One Little Indian. L’album è in realtà l’unione di due precedenti Ep usciti solo per il mercato islandese, Hljóma Þú (2011) e Stofnar falla (registrato nel 2012 nello Sundlaugin studio dei Sigur Rós con Gunnar Tynes dei Múm), con l’aggiunta di quattro remix.
Anche se la voce suadente e fiabesca della giovanissima Jófríður Ákadóttir non potrà sin dalle prime note non farvi pensare a più noti voci islandesi (quella di Jonsi dei Sigur Ros in primo luogo, ma anche di Bjork), e anche se il primo pezzo, Hijòma, ha molto in comune con qualcosa di Valtari, non chiamateli per favore i nuovi Sigur.
Se Hijoma infatti può essere ancora considerato nel genere icelandic post-rock, e se Viltu Vitrast combina melodie e basi elettroniche con un gusto ancora bjorkiano, tuttavia il resto dell’album, specialmente nella sua parte finale, vira verso coste che gli islandesi più famosi non hanno mai percorso. Il lavoro di campionamenti e di ricerca di suoni ed effetti di Þórður Kári Steinþórsson e di Áslaug Rún Magnúsdóttir infatti man mano si fa preponderante rispetto alla voce e alle tracce di melodia suonata che ancora compaiono nei primi pezzi, e guarda sempre di più al trip-hop stile Massive Attack.
Si cercano inizialmente atmosfere trasognate, fiabesche, eteree, aliene: Viltu Vitrast ad esempio si rifà ad un vecchio racconto folkloristico in cui gli abitanti di un villaggio invocano l’aiuto di un essere celestiale, ma hanno paura che questi non possa manifestare il suo potere sulla Terra.
Oppure in Stofnar Falla si esplora con ottimi risultati il suono del notturno (qualcosa che ricorda Waiting for the Night dei Depeche Mode di Violator). Tuttavia verso la fine, con Sòlhvòrf I, Sòlhvòrf II, Kaelan Mikla (ma in realtà già con il terzo pezzo, Gò_a Tungl) le atmosfere da aliene diventano alienate, i ritmi diventano campionati, le basi dub prevalgono decisamente.
I tre Samaris cercano magari di condurre con la loro elaborazione a situazioni oniriche ed inesplorate, ma il fatto è che queste esplorazioni sono roba già sentita, e già da un po’. Salva dalla ripetitività un certo sapore nordico, e una liricità vocale che ovviamente (i testi sono in islandese del XIX secolo) riesce a essere originale, ma l’impianto di base non aggiunge nulla a quanto nei due decenni scorsi sia stato già fatto di ottimo da Massive Attack, Tricky, Portishead e altri. E se non fosse per i remix finali, l’album arriverebbe alla fine anche con una certa stanchezza.
Eppure le aspettative erano altissime: nati nel 2011, in pochi mesi già vincono due importanti premi islandesi, il Músíktilraunir come migliore band dell’anno (l’anno precedente il premio era andato ai Of Monters And Men) e il Kraumur Award per il miglior ep. E su importanti siti musicali inglesi come Line Of Best Fit (“i Samaris suonano come nessun’altra band islandese in questo momento”), o Drowned In Sound (“i Samaris sono specializzati in magnifici ed incantevoli notturni”) sono fioccati giudizi notevoli, forse anche un po’ troppo impegnativi.
Giudizi che comunque non ci sentiamo di condividere, anche se la giovane età dei ragazzi e la ricerca musicale tutt’altro che banale da loro intrapresa dettano ampi margini di miglioramento.
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autore: Francesco Postiglione