Il musicista italoamericano (nato a Vitulazio in provincia di Caserta ma cresciuto nell’area metropolitana dell’Upstate NY) Jospeh Martone ha dato alle stampe “Honey Birds” (prodotto da Taylor Kirk dei Timber Timbre e pubblicato in Italia dalla FreakHouse Records (in collaborazione francese della InOuïe distribution e in Belgio con la Luik Music), un disco di crudo, desertico e scuro rock/folk statunitense.
Martone ha così inciso, fra Napoli e Montréal (con Richard Reed Parry degli Arcade Fire e la regia sonora di Pietro Amato), un lavoro discografico sanguigno, che suona tra i solchi che dai Wilco portano ai Calexico e Tindersticks, passando per il cantautorato made in USA da luciferino crocicchio (Tom Waits) e da sconfinate highway, su cui si impone il canto di Martone, profondo e roco.
“Honey Birds” è un disco con sonorità da crudo, desertico e scuro rock/folk statunitense che conferiscono al tutto un particolare intimismo. Chi è il Jospeh Martone di “Honey Birds”?
Grazie ai tanti viaggi che ho fatto nel corso della mia vita possiedo un bagaglio ricco da cui attingo a piene mani. Questo disco sicuramente rappresenta il raggiungimento di una certa maturità umana e professionale, maturata dopo il periodo con i Travelling Souls. Volevo raccontare un periodo più oscuro e volevo farlo con un determinato sound.
Esistono generi musicali che, per mutuare un termine del Jazz, sono degli “standards”; tra questi è sicuramente ascrivibile il cantautorato rock permeato dal blues e dal folk statunitense, genere al quale si può ricondurre “Honey Birds”. Secondo te qual è l’eterna forza che rende questa musica sempre attuale?
Credo che dai 30 a salire ci siano persone che apprezzano la buona musica, penso al jazz o al folk statunitense, che hanno un sound e una scrittura notevoli e riescono a trasmettere il senso delle storie. Appartengo a una generazione che questi riferimenti riesce a coglierli subito, soprattutto in generi come questi, che spesso fanno fatica ad emergere
Cosa contraddistingue “Honey Birds” dalle tue precedenti esperienze come musicista?
Honeybirds riguarda il periodo dei miei 20 anni, quando, dopo essere tornato dagli States, mi sono stabilito qui in Italia e ho affrontato un periodo un po’ particolare. Sono cresciuto con queste due diverse culture, in cui c’era differenza anche nel sistema scolastico. In provincia, qui in Italia, si faceva poco a scuola e preferivo crescere nel locale della mia famiglia, dove ero a contatto con ragazzi più grandi e preferivo la scuola alla strada. Credo che l’adolescenza in Usa abbia formato molto il mio carattere e la mia attitudine alla vita.
A dispetto dell’attuale momento di crisi globale dovuta alla pandemia, che ha investito anche il campo della musica, hai deciso comunque con coraggio di pubblicare “Honey Birds”; oggi, a più di un mese dalla sua uscita, quali riscontri ha ricevuto questo tuo disco?
Il disco è stato preceduto da un lavoro duro che è durato circa un anno e con un investimento importante per la produzione, portando Taylor Kirk da Montreal a Napoli, con l’intenzione di fare uno step in avanti. Volevo portare tutto questo lavoro a termine e non volevo fosse la pandemia a impedirmelo. Sto ricevendo tanti apprezzamenti sia in Italia che all’estero, soprattutto in Francia e in Canada, dove molti giornalisti sono riusciti a cogliere il senso del disco. Io ho sempre tentato di alimentare il movimento musicale, anche con il mio locale, dove abbiamo organizzato più di mille concerti in quindici anni. Forse c’è più attenzione verso altri generi.
Viviamo in un’epoca in cui la musica è oramai prevalentemente liquida, sempre più lontana dalla fisicità e dalla dimensione live; come ti poni nei confronti del nostro contemporaneo mondo musicale, suonando e componendo tu musica che per tradizione vive del “contatto” umano e del rapporto diretto con l’ascoltatore?
Purtroppo la differenza è abissale, parlo per i concerti che abbiamo fatto in passato in Francia. Il mio team ha lavorato bene e avevamo in programma altri concerti. Per esperienza, posso dire che c’è molta più partecipazione in Francia, in quanto a concerti e supporto agli artisti dove a fine show l’acquisto del vinile è una consuetudine anche solo per supportare l’artista.
In questi mesi di lockdown che riflessioni hai fatto sul mercato musicale? Si è scoperto, anche se tutti del giro lo sapevano ma non ammettevano, che nonostante ci siano tantissimi lavoratori è un mercato fragile fatto di economie deboli. Tu sei anche un proprietario di un live bar quindi hai un doppio ruolo nei quali sei stato coinvolto pesantemente…
C’è questa situazione molto particolare e stiamo proponendo delle dirette e degli streaming, necessari vista l’uscita del disco. Non è la maniera che preferisco. Non c’è paragone col contatto umano, in concerto puoi chiudere gli occhi e trascinare chi ti ascolta nella tua storia.
Sono proprietario di un locale in cui facciamo concerti da tanto tempo, quindi questa situazione ci ha privato del nostro cuore pulsante. E’ dura, anche le agenzie sono ferme, qui non c’è grande attenzione per gli artisti, in tutti i campi. In questo senso, bisogna lavorare tanto. Parallelamente, bisogna lavorare su noi stessi; mi riferisco alle difficoltà nell’organizzare un concerto, agli enti come la Siae che dovrebbero tutelarci in questo momento e invece sono stati assenti.
Guarda in dietro nel tempo: cosa non rifaresti? Sia per ciò che concerne Honeybirds che il tuo passato con i Travelling Souls…
Immagina il tuo futuro. In estate cosa vorrai fare e cosa potrai fare? E da settembre cosa succederà nella tua vita da musicista?
Rifarei ogni cosa, i Travelling Souls sono un’esperienza bellissima che ho condiviso con amici e che andava oltre la mera esibizione, aveva un carattere di familiarità e di complicità. Forse avrei anticipato solo l’uscita di questo album, con queste sonorità e anche questa professionalità.
La speranza di tutti è che tutto si risolva il prima possibile. Punto all’Europa specie in Francia, forse per la fine dell’estate, provando a organizzare un tour, visto l’ottimo riscontro che ha avuto il disco. In Italia c’è molta più incertezza, sia per la mia attività di musicista che di organizzatore. Aspettiamo fino a settembre e vediamo, intanto lavoriamo con il management italo-francese e facciamo girare un po’ di materiale. Spero di fare molti concerti in Italia ma credo ci sia bisogno di compattare la scena, di annullare il distacco tra musicisti e organizzatori e di aprirsi anche alle sonorità che non siamo soliti ascoltare.
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autore: Marco Sica