A tre anni di distanza dallo stupendo “Everywhere at once” tornano sulla scena gli Edible Woman con “Nation”. Abbiamo fatto qualche domanda a Andrea Giommi.
D: Iniziamo parlando dell’approccio che avete avuto nella composizione e, soprattutto, realizzazione a livello di arrangiamenti e registrazioni di “Nation”: l’album è stato registrato in presa diretta e ha all’interno pochissime sovraincisioni. C’è una differenza fra il vostro lavoro (scarno) e quelli attuali più “corposi”: quindi anche una voglia di andare controcorrente? C’è qualcosa nell’approccio degli ultimi periodi (produzione e sovraincisioni massive) che non vi convince?
R: Non è che non mi convinca; penso a Drink To Me e Aucan, esempi di produzioni ottime, davvero potenti, compatte, colorate; ascoltavo l’altro giorno Electric Electric (una band francese su Africantape) e anche lì potenza, precisione, levigatezza. Va bene, mi piace e anzi con The Emerald Leaves direi che l’approccio è stratificato, colorato, iper-arrangiato e smussato; ma sono felice che Edible abbia questa dose di imperfezione: rende la band più preziosa, e forse l’album più dinamico.
D: Quali sono i vantaggi e gli svantaggi di una scelta del genere come quella di registrare in presa diretta utilizzando pochissime sovraincisioni?
R: Beh, direi che devi avere uno stereo migliore per goderne appieno, e magari hai più effetto al secondo ascolto che al primo: sono cazzi in tempi così rapidi. Ma anche questo vuol dire vivere politicamente la propria musica: non deve essere veloce come una pubblicità.
D: Parlando del titolo viene da pensare alla nostra di nazione: anche alla luce di queste ultime elezioni, cosa vogliamo dire di questa nostra Italia? Non solo a livello politico, che poi è la facciata, ma in linea generale, sociale, culturale.
R: Beh, in verità il “discorso” dell’album abbraccia in maniera critica il concetto di nazione più in generale e lo mette in parallelo con una nazione del sé, un “inland empire”; certo, su “Nation” canto “we are dense and suffocating”, un senso di soffocamento fisico che si prova in Italia. La cosa che mi spaventa di più e che mi sta facendo abbandonare il nostro paese è questa anakyklosis inquietante, l’eterno ritorno dell’uguale… un sacco di gente che guarda Sanremo, necrofilia pura, e poi magari vota Berlusconi per la quinta volta: un’immobilità cercata.
D: E come mai credi avvenga questo? E credi possa esserci una soluzione?
R: Non lo so, non sono un fine analista del reale… più dell’irreale (sorride). Credo che ci sia una grande paura di cambiare perché si è vecchi e credo anche che la generazione che ha banchettato sulle ricchezze degli anni ‘60 abbia colpe specifiche: non aver pensato alla finitezza di tutto il benessere, aver lasciato le macerie ai figli (che poi aiutano privatamente ma mai in un discorso di sistema) e, nonostante ne prendano ora coscienza, non voler rinunciare al privilegio che hanno avuto in favore di chi seguirà.
D: Quali sono i punti in comune e le differenze dal precedente (stupendo, a mio avviso) “Everywhere at once”?
R: Per me, al di là di evidenti differenze nell’arrangiamento dei pezzi, direi proprio la capacità di scrivere in tonalità maggiore, che ora è evidente. E una maggiore dinamica data da una più marcata sottigliezza nell’esecuzione dei pezzi.
D: Nell’album continuano a emergere, come nel vostro lavoro precedente, influenze un po’ da tutta la musica “di nicchia” dai ’60 in poi, dalla psichedelia alla Barrett al progressive dei ’70 (mi ricordate sempre per qualche motivo Emerson Lake & Palmer) fino alla dark-wave dei Joy Division e degli ’80: ma, a parte queste mie speculazioni, quali sono effettivamente le vostre influenze?
R: Emerson, Lake & Palmer mai ascoltati, ma è figo che qualcuno senta certe cose nella nostra musica! I 60 credo ci siano per forza, a casa ascolto Fifty Foot Hose, The End, The Seeds, Kaleidoscope, Pretty Things, Silver Apples, i Beatles certamente, i Beach Boys… io spero proprio di riuscire a trasfigurarli e di non fare citazioni, ma di speziare i miei brani con questi sapori. Poi, beh, i fiati… Nicola ascolta prevalentemente jazz, ed ecco che spuntano i fiati… gli anni ‘80 invece non saprei, è sicuramente un lato che arriva dall’apporto di Federico (synth).
D: Come già in parte anticipato, siete coscienti di fare musica di nicchia? Sicuramente di qualità molto più di tante altre band del panorama indie che magari hanno seguito, ma comunque di più difficile ascolto.
R: Si, ne siamo assolutamente consapevoli. E siamo consapevoli anche di NON APPARTENERE A NESSUNA NICCHIA. Abbiamo la nostra nicchia e speriamo che la gente sia curiosa. Ma non stiamo neanche in nessun genere, siamo destinati a spiazzare, e neanche lo facciamo apposta.
D: Infatti non avete un genere predefinito. Questa cosa, secondo alcuni, l’ho letto in giro varie volte in recensioni varie, è sintomatica di una sedicente “poca compattezza” o addirittura di inesperienza della band legata al non avere un sound distintivo. ‘Sta gente qui non ha forse mai ascoltato robe tipo “Revolver” o il “White album” dei Beatles. Il problema è che i “critici” spesso dirigono il pubblico all’ascolto. Voi che rapporto avete con la stampa di settore (soprattutto in un periodo storico come quello attuale, dove ognuno scrive ciò che vuole grazie ad internet)?
R: Un buon rapporto, onestamente. Guarda, aderire a un genere non mi interessa: genera delle critiche? Amen; la gente vuole riconoscibilità? Amen. Le band trasversali sono le uniche che trovano nel loro approccio la linfa per andare avanti. Quelle che devono fare la stessa cosa dopo un po’ diventano tristi. La critica direi che ci “rispetta” molto: a 9 anni dal primo disco ti posso dire che le recensioni positive, i commenti positivi ed ammirati alla nostra musica sono in netta maggioranza rispetto alle critiche, sia in Italia che all’estero. A volte le bastonature sono condivisibili (benché facciano male) e a volte sono esilaranti. Fantastiche quella che definiva un nostro disco “suono del mal di testa” e un’altra che ci avvicinava ai Supertramp.
D: Torniamo all’album. L’incipit affidato a “Heavy skull” più l’ascolto e più mi ricorda come suggestioni “Hangover” dei Gomez, che apre l’album “Liquid skin”: c’è qualche parallelismo fra voi e questa band?
R: Azzo, non saprei. Dei Gomez mi ricordo solo un bellissimo giro di basso. “Heavy Skull” nasce da diversi ascolti che si mischiano in testa: De André (di cui amo SOLO “Anime Salve”) e Ebo Taylor per il giro di chitarra iniziale, forse i Pastels per la melodia, il crescendo “emozionale” è un po’ West Coast… Jefferson airplane?
D: Eh, e “Storia di un impiegato” e “ Non al denaro, non all’amore né al cielo”?
R: Ogni volta che dico ‘sta cosa su De André faccio incazzare un sacco di gente. (ride)
D: No, non sono il tipo che si incazza: tipo “Anime salve” non sono mai riuscito ad ascoltarlo, quindi. (rido)
R: Grande! Vedi che roba matta la musica.
D: Evitando di citare tutte le tracce (una più bella dell’altra) io adoro a dismisura “The action whirlpool”: qual è il brano a cui sei invece più legato tu?
R: All’inizio “Cancer”, ora direi “Heavy skull” e “Will”. “Will” l’ho scritta volando per Lisbona, parla di sopruso e violenza psicologica in amore, elementi che ci sono sempre in amore. In aeroporto sono sempre ispirato. “Heavy Skull” invece mi piace perché è un esempio di quelle canzoni in maggiore che hanno un retrogusto malinconico, una cosa in cui i Beach Boys svettano. Essere riuscito ad ottenere quell’effetto per me è motivo di orgoglio.
D: Perché secondo te fanno parte dell’amore la violenza psicologica e il sopruso?
R: Non me ne fai passare una. Beh, quella è una canzone che mi è venuta in mente pensando al mio rapporto con la mia signorina. Stiamo bene, non ti preoccupare, ma la canzone riflette sul fatto che in ogni rapporto d’amore (non necessariamente amore come rapporto di coppia) ci sono micro-sopraffazioni che si sommano, proiezioni di uno sull’altro che corrispondono a piccole violenze che si stratificano. L’amore non è una cosa innocente, non è un sentimento leggero, per fortuna.
D: Come nascono i vostri brani? C’è un compositore principale?
R: Il metodo cambia e si aggiorna di volta in volta. “Nation” è stato quasi per intero scritto da me (e mi riferisco agli accordi di chitarra e testi, proprio l’ossatura dei brani), a parte certamente “Money for Gold”, che è un lavoro corale, e “Call of the west”, che è tutta di Nicola e Federico. In passato si era lavorato molto di più jammando in sala. In questo caso sono arrivato in sala con i pezzi già scritti, magari a loro volta scritti dopo alcuni spunti nati provando; quello che poi succede in sala prove è fondamentale perché il tutto prenda corpo. Penso a “Safe and Sound” in cui il groove di batteria è geniale e tanto importante per il pezzo quanto lo è la linea vocale. O “Psychic Surgery”, in cui le variazioni del Korg sul ritornello hanno aiutato moltissimo l’impatto melodico del brano.
D: Considerando che sono un maniaco di ciò che accade in studio, seguire il processo compositivo e di realizzazione di un brano (tipo che “The Beatles Anthology” è una ficata) e considerando che ho letto che avete registrato tipo 5 versioni di ogni brano… insomma… non c’è possibilità di ascoltarle ‘ste altre versioni? Magari in futuro.
R: Di “Heavy skull”, “Psychic Surgey” e “Money for Gold” in effetti abbiamo dei demo. Chissà, te li potremmo far ascoltare… “Call of the west/Black merda” credo ci sia in 20 versioni…
D: Testo o musica? Cosa nasce prima nei vostri brani e, in percentuale, quanto contano l’uno e l’altro?
R: Non c’è una formula, ma direi che c’è un momento in cui una melodia trova una musica, una griglia armonica che possa legittimarla, e poi il suono di questa melodia diventa testo. Diventa testo solo dopo, e questo testo può accordarsi alla musica o meno, anche cozzare con essa (fatte diverse canzoni d’amore su base violentissima).
D: La copertina (e relativo video): non fanno un poco schifo?
R: Beh, certamente l’effetto è molto forte, ma io trovo che siano entrambi realizzati molto bene!
D: Cosa volete comunicare con questo artwork?
R: Beh, sai, c’è questo sottotesto della malattia, dell’idea di rompere una condizione di estremo dolore, e tutto il disco dialoga a livello sonoro con questo momento del collasso, di una risoluzione “in potenza”, che non avviene, ma è suggerita (come nel video l’esplosione, c’è ma non si vede). Sai, non è facile comunque spiegare un’intuizione. Io ho avuto questa idea “splatter”, ho trovato in Paolo Alberto Del Bianco (regista), in Andrea Giomaro (effetti speciali) e in Bernadette Moens (grafica) dei partner straordinari per realizzarla visivamente e tutto ha poi preso piede. Pensa che per decidere le luci del video ci siamo ispirati sia a Terrence Malick (perdonaci, maestro) che ai fashion shooting che al porno in HD. Penso che questa scelta funzioni molto bene nel determinare uno stato di tensione.
www.ediblewoman.it
www.facebook.com/ediblewoman
autore: Giuseppe Galato
Da domani la band sarà in tour:
23 marzo 2013 Roma – Circolo degli Artisti with Oneida
29 marzo 2013 Firenze – Tender Club
04 aprile 2013 Niscemi (CL) – Nixenum
06 aprile 2013 Taurianova (RC) – Birreria 34
07 aprile 2013 Ragusa – Lebowsky
14 aprile 2013 Ferrara – Zuni
26 aprile 2013 Chiasso (S) – Gwen Festival
28 aprile 2013 Montpellier (F) – Black Sheep
29 aprile 2013 Clermont Ferrand (F) – Raymond Bar
30 aprile 2013 Parigi (F) – La Cantine de Belleville
03 maggio 2013 Bruxelles (B) – Piola Libri
16 maggio 2013 Cisano Bergamasco (BG) – Senza Far Rumore Festival