Non giudicateli troppo male dal singolo che imperversa nelle radio in questi giorni: Get on Your Boots è troppo simile agli U2 che abbiamo imparato (purtroppo) a conoscere in questi anni per dare la giusta idea del nuovo album, frutto di cinque (benefici) anni di pausa ufficiale. Album che invece contiene musica seria, per la quale il gruppo di Bono e The Edge ha scelto di tornare alle sonorità anni ’90, lasciando da parte il pop-rock melenso e un po’ scontato che ha caratterizzato i precedenti due lavori, e soprattutto richiamando l’artefice di Unforgettable Fire fra gli altri, e cioè il Re Mida Brian Eno, vera chiave della evoluzione positiva del sound U2.
Musica seria e forte, certamente, dalle prime note, cupe, dell’intro di No line on the Horizon, che richiama Achtung Baby (il giro di basso è vicino a Ultra Violet e parliamo di 16 anni fa!) su cui Bono cerca di trovare acuti che purtroppo non gli appartengono più. Segue la bella e altisonante Magnificent, che ha un inizio che minaccia di esplodere in una nuova Vertigo, ma per fortuna ci pensa Brian Eno con un synth a dare alla canzone un’altra strada, e poi arriva un riff di The Edge tratto direttamente dai tempi di War. Mentre Moment of Surrender ci regala un vocalist in qualche difficoltà, mentre il pezzo vagamente gospel funziona, rinviando alle melodie ricercate di Your Blue Room (di marchio Passegners) e della Million Dollar Hotel soundtrack, probabilmente l’unica cosa di vero valore pubblicata dagli U2 dal 2000 in poi.
Comunque, sin dai primi pezzi, si avverte che gli U2 sono lontani miglia e miglia dalla musica che ha fatto vendere loro milioni di dischi in questi ultimi anni, alla Vertigo o Elevation, facendo però storcere le labbra ai critici e ai puristi del rock. Ed è un bene: così come è anche un bene che Bono sembra aver dimesso i panni di political world-star per tornare a fare il cantante e il musicista, con testi ispirati e intensi, anche se non necessariamente impegnati, spesso raccontati in terza persona con personaggi immaginari.
Quest’album, promosso con un’esibizione dai tetti della BBC (citazione dei Beatles, certo, ma anche di se stessi in Where the Streets have No Name), con copertina dell’artista giapponese Hiroshi Sugimoto (per la quale il cantautore Taylor Deupree ha rivendicato il plagio) assolutamente minimalista, con il video Linear di Anton Corbijn da accompagnamento, è il più ricercato che i quattro di Dublino abbiano pubblicato negli ultimi tempi: l’intensità, la rabbia, la spontaneità e il cuore dei pezzi con cui sono diventati famosi negli anni ’80 sono sideralmente lontani, ma almeno il lavoro e l’attenzione stilistica ci sono tutti.
Un giro di armonici di chiaro marchio di fabbrica Edge introduce la perla Unknown Caller, che sembra essere uscita direttamente da album come War o October, ed è, a questo punto dell’ascolto, una tremenda bellissima sorpresa, candidandosi a essere la nuova Drowning Man che i fan della prima ora ricorderanno. Questi sono gli U2 che hanno emozionato generazioni, e che qui, quasi solennemente, cantano addirittura insieme in coro. Se gli effetti della chitarra di Edge non fossero qui così tipici (e quindi un po’ stancanti) si griderebbe al capolavoro assoluto.
I’ll go crazy if I don’t go crazy tonight cita nell’intro arpeggi di The Joshua Tree e ritmi di Achtung Baby, e anche questa suona bene: gli U2 sembrano andati intenzionalmente a scavare nel loro repertorio quello che poteva dar loro ispirazione per un album di livello artistico, ispirato, quale sicuramente è No Line on the Horizon fino a qui, ed è già tanto, dopo i fallimenti qualitativi dei precedenti due. Bravi dunque, a ricercare qualità e fan della prima e seconda generazione di uduisti tralasciando quelli conquistati troppo facilmente negli ultimi tempi.
Cerca a questo punto di rovinare tutto Get On your Boots: skippatela come merita, e troverete alcune novità: Breathe, Fez-Being Born e Stand Up Comedy sono una deviazione verso generi mai praticati, pianificata a tavolino, e l’ultimo è quasi un funk rock alla Red Hot Chili Peppers, che si candida a essere la nuova Love and Peace or Else, per fortuna con rese migliori. White As Snow, altra novità e altra perla, è una ballata molto irlandese, malinconica e invernale, piuttosto inedita per la verità nel panorama U2, come pure Cedars of Lebanon, pezzo soffuso, quasi parlato che chiude l’album (e poteva essere chiuso meglio per la verità).
Con questi 11 pezzi stavolta gli U2 non si preparano a riconquistare il mondo, ma piuttosto i loro fan più smaliziati, che hanno storto la bocca alle loro ultime cose. Non è detto che ci riusciranno, ma è certo che hanno tirato dal cappello un lavoro ben pensato, forse la migliore cosa che (a cinquant’anni ormai d’età e dopo quasi trent’anni di attività) potevano sfornare a questo punto. Anche se il sound, specie quello della chitarra, complessivamente rimane ovattato, facile, convenzionale, un po’ troppo autoreferenziale, abusato quasi, e lontano dagli esperimenti di Pop, dalle svolte di Achtung Baby, ed i pezzi restano al di sotto del livello degli inediti che gli U2 hanno sfornato in questi anni. Se ascoltate Mercy, o Are you Gonna wait Forever, o Stateless, e probabilmente anche i nuovi lati B (pare che gli U2 abbiano inciso 60 pezzi, tanto che si parla di nuovo album l’anno prossimo per cui sembra già pronto il titolo, Songs of Ascent) ci troverete, c’è da scommetterci, qualità migliore. E questo denota, indiscutibilmente, una resa alle esigenze di mercato che proprio dalla band di Unforgettable Fire o Achtung Baby (album difficili e di contro-tendenza) non si può accettare. Ma, vista anche la scelta dei singoli di questi anni (Elevation, Vertigo, e adesso Boots), pare che con Bono e compagni dobbiamo farci l’abitudine.
Autore: Francesco Postiglione
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