Vonneumann, ex Arborio, sono il quartetto capitolino che rubacchia il moniker al matematico ungherese, poi naturalizzato statunitense, Jon Von Neumann (per lo più gli portan via gli spazietti). Gli Arborio viaggiavano per la galassia anni novanta con un marchio mental math, scelta radicale invece quella in anni zero di spezzare la matematica, di avvilirla forse o di corroborarla per altre corriere free forms. Alle soglie del nuovo secolo si dà vita al nuovo progetto che dopo quindici anni conta in saccoccia sei uscite, con una logica che segue quasi sempre filosofie cut up in montaggio e jam nei live set (come e quando i due piani vanno a confondersi non ci è dato sapere) con giri e ibridi scelti in tempore.
Per centrare meglio l’obbiettivo scomponete una grassa simpatia dei protagonisti fatta di hipsterismi, fancazzismo, colpi di genio, con le migliori svisate coltraneiane e ricucite il groppo con parecchi anni di musica studiata, composta – atonale per giunta – scritta e poi sul più bello dei finali stracciata e fatta a coriandoli. L’impro assoluto e il collage delle tracce è stata una fase embrionale che è durata fino a Switch Parmenide, era il 2006. In quel frangente nasce il desiderio di puntellare lo stile libero con qualche base, perlomeno una scrittura dei fondamentali ed è così che, sempre tenendo la nave a bolla fra le svisate, viene partorito nel 2009 Il de’ metallo, edito per l’oramai defunta Ebria records, label lombarda promotrice del Baa fest e collettrice di una grossa fetta di artisti minimal/impro-noise.
Questo disco rimarcava la fecondità creativa del quartetto, soprattutto nel tessere ambienti non precostituiti (Omniittico) lavorando sulle armonie e sui gradi di alterazione e ottundimento (Zonathan Gisaggio, The Late Jeff Koons). Il tutto comunque girato in montaggio, ma quel poco che bastava per assemblarlo. Tuttavia, badate bene, in cantiere c’era già dai tempi di Switch Parmenide il disco che ci accingiamo a raccontare.
Nel 2006 Il de’ blues, fratellastro di Metallo, era già nelle corde del gruppo, pronto o quasi per essere impiattato sugli strumenti in maniera agreste, avrebbe visto la luce di lì a poco, ma lauree, vite private, la Homemade avantgarde a sollecitare l’uscita di Switch fecero procrastinare il progetto. Il de’ blues vede quella bellissima luce solo ora, forse nel momento migliore per i Vonneumann che per l’ennesimo giro di boa solcano i mari del free con le piste a far da bordone.
Il fratellastro viene dipinto con le due chitarre a dialogo sopra il rumore (blackèmon), la batteria a perdere meno frastuono, vibrante su tempi dispari, rivelatrice di iperattività (Un bel morover per Braun). Ritorna lo script, quella sicurezza non apparecchiata ma almeno un tantino ragionata a monte, che dona, dopo anni di libere dissociazioni, un melange di strutture a giustificare un solco d’esperienza.
Come quattro anni fa la superiorità dei Vonneumann sta nell’accorciare le vie lontane con una profonda classicità e un senso cupo dei tappeti (l’intro di Il tappinh che fu, il jazz di Doppio nativo mezzo nogarole, il misterioso di Napqueen) quando potrebbero tranquillamente virare per tangenziali lunghissime e non sense. Chi riesce, come loro a fermare un oceano dentro un bicchiere di plastica merita solo rispetto.
Il disco esce il 18 Febbraio.
www.vonneumann.net
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autore: Christian Panzano