Esistono dischi che ti segnano, perché legati a un periodo particolare della tua vita (soprattutto quando sei ragazzo); uno di questi è “In Place Of Real Insight” (del 1997) dei Karate: “This, Plus Slow Song” resta uno dei brani a cui sono “intimamente” legato con particolare affetto e che mi emoziona ad ogni ascolto (“Imagine yourself young/With pockets full of water/You haven’t learned to hesitate yet/And the sun beats down/All on your skinny neck/As we kick around the shore/You know the rest…” ).
“Imagine yourself young”… e così, andando indietro con la memoria e con il “cuore”, perché il valore delle emozioni attraverso i ricordi di gioventù è tra i più preziosi tesori che possediamo, se il primo quinquennio degli anni novanta fu epocale, la seconda metà degli anni novanta fu altrettanto particolarmente intensa e molti furono i dischi legati (appunto) ad emozioni e ricordi; di quel lustro (1995/1999), con “In Place Of Real Insight”, ci sono nella memoria e nel “cuore” con ugual legame (indipendentemente dal loro valore, comunque sempre notevole), quantomeno: “Bufo Alvarius, Amen 29:15” dei Bardo Pond (del 1995), “Further” dei Flying Saucer Attack (del 1995), “Labradford” dei Labradford (del 1996), “If You’re Feeling Sinister” dei Belle and Sebastian (del 1996), “Emperor Tomato Ketchup” degli Stereolab (del 1996), “Long Arm of Coincidence” dei Jessamine (del 1996), “Music from the Unrealized Film Script: Dusk at Cubist Castle” dei The Olivia Tremor Control (del 1996), “Now I Got Worry” dei Jon Spencer Blues Explosion (del 1996), “Vivadixiesubmarinetransmissionplot” degli Sparklehorse (del1996), “Exploded Drawing” dei Polvo (del1996), “F♯ A♯ ∞” dei Godspeed You Black Emeror! (del 1997), “Perfect from Now On” dei Built to Spill (del 1997), “Mogwai Young Team”dei Mogwai, “TNT” dei Tortoise (del 1998), “Camoufleur” dei Gastr del Sol (del 1998), “In the Aeroplane Over the Sea” dei Neutral Milk Hotel (del 1998), “Electro-Shock Blues” degli Eels (del 1998), “Fly Pan Am” dei Fly Pan Am (del 1999), “Eureka”di Jim O’Rourke (del 1999), “Live from a Shark Cage” di Papa M (del 1999), “69 Love Songs” dei The Magnetic Fields (del 1999), “2” dei The Black Heart Procession (del 1999), “Pinback” dei Pinback (del 1999)…
Tornano alla nostra trattazione, per uno strano destino della vita i Karate sono (al momento) anche il gruppo che ho visto più volte dal vivo, finanche nel luglio del 2005 (l’8 luglio per la precisione), a Napoli, al Neapolis Festival, due giorni prima dello show tenutosi a Roma il 10 luglio 2005 che segnò il loro abbandono dalle scene dopo solo dieci anni dal loro esordio discografico ufficiale del 1995.
1993/1995/1996: la partenza
In formazione composta da Geoff Farina (chitarra e voce), Eamonn Vitt (basso) e Gavin McCarthy (batteria), del 1995 sono sia l’EP “Death Kit” (bella “Death Kit” già in stile Karate) che LP “Karate”, questo più rock (“Trophy” docet) e con meno nuance jazz rispetto al loro (caratteristico) futuro suono, per un disco reso famoso da “Gasoline”, ma contenente anche le belle “If You Can Hold Your Breath” e “Caffeine Or Me?” (oltre a brani quali “What Is Sleep?”, “—”, “Bad Tattoo”, “Every Sister”, “Bodies”, che per intenzione erano già proiettati nel divenire).
Del 1996 sono, poi, l’abrasivo singolo “Cherry Coke” e il singolo “The Schwinn” (anche esso già “vestito” da Karate).
C’è da dire che esiste anche “Sometimes You’re A Radio”, audiocassetta “demo” registrata nel 1993 recante la scritta “Recorded 11.93 lo-fi-style in our basement” in cui fanno, tra l’altro, la loro apparizione proprio “Cherry Coke” e “Schwinn”.
1997/2000: il punto d’arrivo
Del 1997 sono i singoli “Operation: Sand” ed “Empty There”, entrambi di ottima fattura, ma soprattutto LP “In Place Of Real Insight” che, con la citata poetica “This, Plus Slow Song”, la spettacolare “New Martini”, la lenta “Wake Up, Decide”, la furia di “It’s 98 Stop”, le tensioni di “New New”, la delicatezza di “The New Hangout Conditio”, la notturna “On Cutting”, la spigolosa “Die Die” e la conclusiva “Today Or Tomorrow”, è il loro disco “perfetto”, registrato con formazione a quattro composta anche da Jeff Goddard al basso e con Vitt passato alla seconda chitarra.
Dopo la breve ma proficua parentesi come quartetto, i Karate tornano trio con l’abbandono di Vitt e, nel 1998, pubblicano il buon “The Bed Is In The Ocean” (di pregio “There Are Ghosts” e “The Same Stars”, belle “The Last Wars” e “Up Nights”), lavoro che paga però lo scotto di venire dopo “In Place Of Real Insight”, di essergli in parte figlio e di “osare” con più istintive divagazioni strumentali.
Mirabile e “unico”, invece, è “Unsolved” del 2000 (con l’eccelsa “Small Fires”, la calda “The Lived-But-Yet-Named”, la pungente “Sever”, la splendida “Number Six”, le cupe pennellate e le distorsioni di “One Less Blues”, il lungo viaggio di “This Day Next Year”), in cui la matrice rock, sebbene presente, lascia spazio a più morbide sonorità jazz; con “Unsolved” sostanza e gusto “formale” trovano pieno equilibrio.
2001/2005: il ritiro
“Unsolved” è però il punto di arrivo dei Karate.
Già il successivo “Cancel/Sing” del 2001 segna infatti il passo, degenerando quanto preannunciato da “This Day Next Year” con due estese composizioni: “Cancel” di oltre 11 minuti e “Sing” di quasi 15 minuti in cui la formula si fa ripetitiva, per taluni versi fuori anche dalla loro portata, o addirittura inconsistente come nelle astrazioni di “Sing”, sorta di “jam” che non convince neanche per i continui cambi di registro e nelle abrasive distorsioni.
Analogo discorso per “Some Boots” del 2002, come testimonia da subito “Original Spies” con le sue incursioni di chitarra distorta, riprese in “First Release”, portate ai limiti del noise/progressive in “In Hundreds” (con punte di gratuito virtuosismo) o caricate di (dubbio) effetto in “Airport” e in “Baby Teethper” per un Farina che, nel tentativo di rinnovamento, deraglia… rientrando sui giusti binari con il solo jazz/blues di “Ice Or Ground?” e ricordando i vecchi Karate con “Remain Relaxed”; più interessanti le sperimentali “Corduroy” (presente sul CD) e l’eterea “South” anche se appaiono più come “dialoghi” tra Farina e la sua chitarra che composizioni vere e proprie.
Del 24 febbraio del 2002 sono però le registrazioni del bel “Concerto Al Barchessone Vecchio” tra cui si mette in evidenza “Number Six” con Luca Mai al sassofono; ed ancora: “One Less Blues”, “If You Can Hold Your Breath”, “The Roots And The Ruins”, “There Are Ghosts”, “The Same Stars”, “The Angels Just Have To Show”, oltre a una “In Hundreds” più “cruda” e interessante della versione studio.
Del 5 maggio 2003 sono, poi, le registrazioni dal vivo del concerto tenuto a Leuven in Belgio, contenute in “595” (pubblicato nel 2007); nelle note di copertina la scritta: “We have heard countless live recordings of the 694 shows we played between 1993-2005 but this recording of #595 is surely our favorite”. In “595”: ancora una bella lettura dei classici “The Roots And The Ruins”, “Number Six”, “There Are Ghosts”, una “In Hundreds” portata a più di 9 minuti ed anche qui ben interpretata, e poi una sempre gradita “Sever” oltre ad “Airport”, “Original Spies” e, dagli archivi, “Caffeine Or Me” tirata fino ai 10 minuti quale finale da degna chiusura di un live.
“Pockets” del 2004 non migliora la situazione rispetto a “Some Boots”; tra i solchi però emerge un Farina capace di ballate dal sapore pop-folk come nella riuscita “Water” (c’è da dire che il Farina solista, già con “Usonian Dream Sequence” del 1998 aveva mostrato una scrittura “cantautorale/folk”, confermandola fino a “The Wishes Of The Dead” del 2012, mentre con i The Secret Star aveva mostrato una dimensione più acustica da cantautorato indie; sia il Farina solista che i The Secret Star non saranno però oggetto della nostra trattazione che si limita ai soli Karate).
Il resto di “Pockets” gira anonimo, con momenti addirittura radiofonici anni settanta come “Tow Truck”, facendosi notare solo per la presenza alla chitarra di Chris Brokaw dei Codeine (storico ed eccezionale il loro “Frigid Stars” del 1990) in “Cacophony” e “Concrete” che, con “Water”, sono i momenti più riusciti del disco.
Del 2005 è “In The Fishtank 12” (EP realizzato per la celebre collana della Konkurrent) contenente brani altrui (per lo più dei Minutemen) in versioni ben eseguite ma che nulla di particolare aggiungono a quelle originali (come per “The Only Minority”, “Bob Dylan Wrote Propaganda Songs”, “This Ain’t No Picnic” e “Colors” dei Minutemen); non mancano però interessanti riletture (come “Tears of Rage” di Richard Manuel e Bob Dylan, brano reso celebre dalla The Band); altre volte le esecuzioni sottraggono qualcosa (come nella bella ma ripulita “Need a Job” dei Beefeater) o in “Strange Fruit” in cui l’intensità del testo non è resa dalla musica. Interessante è “A New Jerusalem” di Mark Hollis in stile Karate.
Dall’“ascolto” di questo decennio, ciò che emerge è che nel tempo i Karate hanno optato per una maggiore “concretezza”, contenendo le “divagazioni” e i repentini “cambi” che erano un loro marchio di fabbrica e questa diversa forma espressiva più ordinaria e “legata” non gli ha giovato, “peccato” che si porta dentro anche “Make It Fit”.
– “Make It Fit”: il ritorno
Dopo vent’anni dall’ultimo disco di inediti (“Pockets” del 2004), Farina, Goddard e McCarthy tornano a pubblicare a nome Karate un nuovo disco “Make It Fit” (Numero Group) che purtroppo ha (in parte) deluso le aspettative.
L’apertura del vinile è affidata a “Defendants” che ben poco ha dei Karate storici e migliori (e anche dei meno compiuti dell’ultimo periodo), calcando le orme di un più “convenzionale” alt-rock da improbabile “scala classifica”.
Se “Bleach The Scene” porge l’orecchio al rock, “Cannibals” si pone sulla scia di “Defendants” mostrando anch’essa un (discutibile) funzionale gusto radiofonico con venature punk-pop da west coast.
“Liminal” acquieta e ripropone vecchie collaudate soluzioni, morbide e cullanti tra sfumature blues, rock e jazz.
Non dispiace, in chiusura di primo lato, “Rattle the Pipes”, alt-rock con un indubbio fascino nel riff di chitarra e nel cantato, per un momento sicuramente riuscito.
Girato il vinile, “Fall To Grace” è una ballata indie, ben confezionata, con una promettente chitarra, ma incapace di uscire da un gradevole anonimato; né salva la coda finale, statica e “prolissa”.
“Around The Dial” è brano che riprende lo spirito dei Karate dell’ultimo periodo per un “nostalgico” piacevole ascolto.
Se si torna a un rock “ruvido” con “People Ain’t Folk”, “Three Dollar Bill” si mostra interessante nella commistione tra cantato e musica.
Chiude “Make It Fit” l’intima e bella “Silence, Sound” (tra i più riusciti momenti dell’intero lavoro).
https://www.youtube.com/watch?Recentemente, su queste pagine, nel recensire “Rack” dei The Jesus Lizard, anch’esso disco pubblicato dopo un lungo tempo di inattività, si era scritto: ‘i The Jesus Lizard, con il buon e sincero “Rack” (Ipecac Recordings), tornano sul mercato senza rinnegare se stessi, portando avanti il vessillo del loro credo musicale e, in ragione dei tempi e della contemporanea proposta musicale, rendono con gradita anacronistica ostinazione ancora una volta attuale il detto: “il fine giustifica i mezzi”’; ed ancora si era esaltato “No Title as of 13 February 2024 28,340 Dead” dei Godspeed You! Black Emperor: ‘Esistono realtà incorruttibili e immutabili, tanto salde da essere “inattaccabili” anche nella loro ferma apparente mobile staticità. Così è per i Godspeed You! Black Emperor (Godspeed You Black Emperor!), da decenni portatori di un ideale incrollabile…’; ebbene, tale operazione non è riuscita in egual misura ai Karate che con “Make It Fit” non hanno giustificato né il “fine” né “i mezzi” per conseguirlo, né tenuto fede al loro incrollabile ideale.
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Ph. credit: Daniel Bergeron