Le favole immaniginifiche di Manoj Nelliyattu Shyamalan sono sempre caratterizzate da una flagranza misterica di sicura ascendenza thrilling, anche se la loro più rilevante capacità è quella di trasfigurarsi per sconnettere il proprio esito drammatico dalla dinamica angusta dei ‘generi’. È il caso di “Lady in the water”, contenitore prodigioso di genuina suspence e sagaci soluzioni narrative, che può vantare un ampio respiro tipico dei film sui generis.
L’ultimo lavoro del regista indiano non è una insensata ode al mondo incantato ed indecifrabile del mito, pericolo costante quando si sceglie di raccontare realtà fantomatiche e occulte visione di mondi alternativi. Shyamalan intraprende invece la strada del fatato per descrivere il destino di un complesso residenziale, assurto a metafora inequivocabile dell’umanità tutta. A capo di questo consorzio c’è il tormentato custode Paul Giamatti che dovrà decodificare il confuso linguaggio di Story, ninfa proveniente dall’inaudito Mondo Azzurro e detentrice di un messaggio capitale per la sorte degli uomini. In prima battuta osservante delle piatte leggi del thriller, il processo filmico presenta una considerevole quantità di personaggi tratteggiati con l’intenzione di un affresco corale. Il sostrato iniziale, imparentato inevitabilmente con l’ortodossia cinematografica, viene vivacizzato così dalla scelta di complicare i sentieri che di volta in volta imbocca. A parte una scena orrenda, quella del primo attacco frontale dello Scrunt, il film sostanzia un gioco di ruoli in cui a farla da padrone non è l’equivoco, ma il fattore umano. L’assunto di base viene tradito dal momento che non è la ninfa ad offrire aiuto, ma esattamente il contrario. La dissertazione di Shyamalan è fascinosamente basata su continue premesse che si prestano allo spettatore come snodi fondamentali della trama, salvo poi tramutarsi in punti cardine di una mistificazione ben più sottesa e spiazzante. La regia acquisisce un afflato vigoroso grazie ad un uso discreto dei movimenti di macchina, spesso le coordinate spaziale sono manipolate dal meccanismo dell’esclusione: le inquadrature accusano dei fuochi suscettibili dell’arbitrio registico, per questo a volte la composizione della scena diventa un rebus disvelato soltanto nel suo manifestarsi. “Lady in the water” vuole accreditare alla realtà odierna una significazione atavica grazie ad un intervento esterno, sovrumano e umano al contempo (la bella Story è in ogni modo un emblema onnicomprensivo). E chissà che dopo quest’esperienza anche la guerra in Iraq, di cui nel film ricorrono fugaci immagini televisive, non inizi ad essere vista come un mostro idrofobo ed eversore, come lo Scrunt.
Autore: Roberto Urbani