Ammettendo che Ben Harper possa un domani conquistarsi un posto in una di quelle classifiche definitive del tipo “i mille dischi del secolo”, “i 300 migliori album dell’ultimo ventennio” non sarà con questo “There will be a light” che si meriterà tale menzione speciale. Altri sono infatti i lavori da preferire nella discografia di Ben Harper: “Fight for your mind” per la sua vigorìa ritmica oppure uno tra “The will to live” e “Burn to shine” per la loro maturità espressiva, e finanche il penultimo “Diamonds on the inside” ha senz’altro più carte da giocarsi rispetto a “There will be a light”. Mentre in “Diamonds on the inside” Ben Harper puntava tutto sulla varietà stilistica, saltellando gioiosamente dal rock al funk e da qui al roots-reggae, in questo ultimo capitolo di appena 39 minuti viene chiamata a raccolta la storica formazione soul-gospel dei Blind Boys of Alabama (nata nel 1939 e ancora capeggiata da tre dei suoi membri fondatori: Clarence Fountain, George Scott e Jimmy Carter) e in loro compagnia Ben Harper va ad esplorare il versante soul della propria formazione musicale, senza però riuscire a conferire al risultato finale quella profondità che era lecito attendersi. La rilettura di “Well, well, well” (a firma Bob Dylan e Danny O’Keefe) e quella di “Satisfied my mind” (brano di Red Hayes e Jack Rhodes), l’inno gospel “Mother Pray”, gli assoli blues di “Where could I go” e il balletto country di “Church on time” – nati da soli 8 giorni di lavoro in studio – finiscono per avere non altra effimera consistenza che quella di un passatempo meritevole di essere documentato unicamente per la gioia dei fans più incalliti, mentre chi fan non è potrebbe avvertire la spiacevole sensazione che questo puro divertissement sconfini a volte in un semplice esercizio accademico svolto con diligente dedizione e nulla più. Nella scaletta dei futuri concerti troverà certo spazio “Church house steps” (ottima nel controcanto tra la voce e la chitarra di Ben Harper e i cori e l’organo dei Blind Boys) e forse, chi lo sa, anche “Take my hand” e “Wicked man” potranno acquistare dal vivo altro spessore rispetto a quanto sentito su disco, ma la sensazione di trovarsi di fronte ad un’occasione mancata resta nitida.
Sarebbe comunque ingeneroso rivedere il giudizio sulla levatura artistica e sull’autenticità dell’ispirazione di Ben Harper: la sua è musica che nasce dal cuore e che al centro del cuore va diretta. Peccato che stavolta il bersaglio venga appena sfiorato.
Autore: Guido Gambacorta