La band inglese di Brighton, guidata da Orlando Weeks alla voce e chitarra, e popolata dai fratelli White (Hugo e Felix alle chitarre, Will alle tastiere) con Rupert Jarvis al basso e Sam Doyle alla batteria, dopo tre album più che apprezzabili sfornati negli scorsi anni (Colour It In, Wall of Arms e Given to the Wild) torna alla produzione in studio con Marks to Prove It, a tre anni di distanza dal disco precedente.
Stavolta i ragazzi di Brigthon (originari di Londra in realtà) scelgono di incidere e prodursi da soli, affidandosi alla Fiction Records, etichetta minore della Universal, ben nota per i dischi dei Cure e degli Snow Patrol.
Non lasciatevi ingannare dal nome biblico (scelto, è vero, sfogliando la Bibbia, ma prendendo una parola puramente a caso): la band non è religiosamente ispirata, anche se il suo sound ha un’aria vagamente mistica, celeste, resa tale non solo dalle trame musicali ma in particolare dalla voce suggestiva e quasi “predicativa” di Orlando.
Lo stile è quello dei Dry The River, band molto vicina per sound e ispirazione: Marks To Prove It rifiuta gli stilemi dell’indie rock più tradizionale con il quale ancora si confondevano i Maccabees degli esordi di Colour it in, per andare nella direzione di un sound nuovo, che qualcuno ha già battezzato Fair Rock, caratterizzato sostanzialmente da epica e malinconia, e trame musicali complesse, raffinate, piene di archi e tastiere a colorare l’impianto classico di basso, batteria e chitarra, quest’ultima rigorosamente senza assoli. Il disco contiene undici brani che vibrano dal ritmo malinconico di Kamakura e Ribbon Road, all’inno epico in crescendo Spit It Out, fino alla gioia dinamica della title track Marks To Prove It.
Nessun dubbio che la sequenza delle prime quattro canzoni appena descritte sia decisamente azzeccata e impressionante: si avrebbe addirittura la sensazione di trovarsi di fronte a un capolavoro assoluto, se non arrivassero Silence, River Song e Slow Sun ad abbassare toni e ritmi: ci sta anche questo, senza dubbio, e Silence e Slow Sun sono lente e bellissime ballate malinconiche, però certo la sequenza centrale rallenta un po’ l’impressione in crescendo dei primi pezzi.
Segue il solenne singolo cantato in coro Something Like Happiness, e ancora toni epici con WW1 Portraits, e poi due pezzi un po’ incerti e incompiuti, dai toni scuri, Pioneering Systems e Dawn Chorus, forse poco adatti a concludere un album dalle melodie così ariose e solari.
C’è insomma ancora qualcosa che i Maccabees devono trovare per definire il loro suono ideale, ma è certo che la loro prossima esibizione al Fabrique di Milano il 3 febbraio prossimo non andrebbe persa. Chi ci sarà avrà la certezza di ascoltare qualcosa di nuovo, prodotto da una band di sicuro talento, che si muove con sempre maggiore sicurezza dei propri mezzi e consapevolezza della loro forza musicale.
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autore: Francesco Postiglione